Accertamenti bancari, l’attività d’impresa fa la differenza

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In una recente pronuncia, la Suprema Corte ha affrontato nuovamente il tema della rilevanza delle operazioni bancarie, ai fini dell’accertamento delle imposte sui redditi, chiarendo le fattispecie aventi rilevanza generale, rispetto a quelle valevoli unicamente nei confronti dei titolari di reddito d’impresa commerciale. Vediamo quindi quali principi sono stati elaborati dalla giurisprudenza e, in concreto, quale il loro impatto sull’attività di accertamento svolta dall’Agenzia delle Entrate.

La disciplina generale delle indagini bancarie nel D.P.R. n. 600 del 1973

Come noto, in forza dell’articolo 32, comma 1, n. 2), del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, i dati ed elementi attinenti ai rapporti ed alle operazioni, acquisiti a seguito della richiesta

  • alle banche;
  • alla società Poste italiane Spa, per le attività finanziarie e creditizie;
  • alle società ed enti di assicurazione per le medesime attività;
  • agli intermediari finanziari;
  • alle imprese di investimento;
  • agli organismi di investimento collettivo del risparmio;
  • alle società di gestione del risparmio;
  • alle società fiduciarie;

e relativi a qualsiasi rapporto intrattenuto od operazione effettuati, sono posti a base degli accertamenti previsti dagli artt. 38 (dichiarazioni delle persone fisiche), 39 (redditi d’impresa delle persone fisiche), 40 (dichiarazioni diverse dalle persone fisiche) e 41 (accertamento d’ufficio).

La medesima norma tuttavia precisa che tale utilizzo può essere “paralizzato” dal contribuente il quale riesca a dimostrare:

  • che ha tenuto conto di tali somme per la determinazione del reddito soggetto ad imposta;
  • che, allo stesso fine, le medesime non hanno rilevanza fiscale.

Così, nell’ipotesi tipica di versamenti di denaro o assegni in c/c o di accredito di bonifici bancari, l’Agenzia può legittimamente supporre che tali movimentazioni derivino dalla produzione di redditi occultati al Fisco; il contribuente, come abbiamo precisato, ha l’onere, per superare tale presunzione, di dimostrare che tali movimentazioni derivino da redditi che hanno concorso alla determinazione del reddito imponibile o che non rilevano poiché, ad esempio, esenti o assoggettati a prelievo alla fonte (come nell’ipotesi di dividendi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta).

La disciplina dei prelievi riservata alle imprese commerciali

Ciò posto, la medesima disposizione stabilisce altresì che, alle stesse condizioni, i prelevamenti o gli importi, riscossi nell'ambito dei predetti rapporti od operazioni, sono posti come ricavi a base degli accertamenti.

Affinché i prelevamenti dal conto corrente possano essere utilizzati in sede di accertamento, gli stessi non devono risultare dalle scritture contabili e, sotto il profilo quantitativo, rilevano solo al superamento congiunto delle seguenti soglie di valore:

  • euro 1.000,00 giornalieri; e, comunque,
  • euro 5.000,00 mensili.

Al riguardo va precisato come, facendo la norma eslusivo riferimento ai “ricavi”, l’ambito di applicazione è limitato ai soggetti che produco reddito d’impresa; conseguentemente, per tutti gli altri soggetti passivi, ivi compresi i titolari di redditi di lavoro autonomo (come stabilito dalla Corte costituzionale nella sent. n. 228 del 2014), i prelievi non possono assumere una tale valenza probatoria.

Al ricorrere di tali presupposti, pertanto, queste movimentazioni finanziarie possono essere collegate alla produzione di ricavi dell’attività d’impresa, avendo, al pari di quelle relative alle entrate, valenza di presunzione legale relativa.

Prelievi e versamenti, necessari accertamenti distinti

Venendo ora alla giurisprudenza cui si è accennato in premessa, la Cassazione, nell’ordinanza n. 23799 del 28 ottobre 2020, sembra aver fatto corretta applicazione dei principi appena chiariti.

In particolare, nel caso esaminato dalla Suprema Corte, al soggetto sottoposto a verifica, formalmente titolare di redditi di lavoro dipendente, era stato contestato un maggior reddito imponibile derivante da movimentazioni bancarie, sia in entrata che in uscita, sulla base della asserita sussistenza di un’attività di amministratore di fatto di una S.r.l. di cui lo stesso era altresì socio.

A seguito dell’impugnazione da parte dell’Agenzia delle Entrate della sentenza della CTR della Lombardia, favorevole al contribuente, la Cassazione ha annullato con rinvio tale provvedimento, in quanto il giudice lombardo, dando esclusivo rilievo al fatto che non si fosse raggiunta la prova dello svolgimento dell’attività d’impresa commerciale, aveva confermato l’annullamento integrale dell’avviso di accertamento notificato al contribuente.

Seguendo le indicazioni della Suprema Corte, quindi, nel nuovo giudizio presso la CTR della Lombardia, i giudici tributari dovranno valutare distintamente:

  • le partite finanziarie in entrata, con riferimento alle quali l’onere della prova, diretto a dimostrare l’irrilevanza fiscale di tali movimentazioni, ricade sul soggetto sottoposto a verifica;
  • rispetto a quelle in uscita in cui, invece, è l’Amministrazione a dover dimostrare preliminarmente lo svolgimento occulto di un’attività d’impresa commerciale da parte del contribuente.

Normativa

Art. 32, comma 1, n. 2), D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600.

Giurisprudenza

Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, 28 ottobre 2020, ordinanza n. 23799.

Corte costituzionale, 6 ottobre 2014, sent. n. 228.

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