ANCHE DURANTE LA VERIFICA FISCALE, IL SILENZIO PUO’ ESSERE D’ORO

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Nonostante la sempre maggiore diffusione di regimi semplificati, le scritture contabili hanno ancora un ruolo centrale per testimoniare la fedeltà del reddito di impresa e di lavoro autonomo dichiarato. Tuttavia, anche una contabilità formalmente regolare non è sempre indice di un corretto comportamento fiscale. Infatti, allo scopo di intercettare componenti di reddito non dichiarati, il legislatore ha previsto le cosiddette rettifiche analitico-presuntive, ovvero le ricostruzioni incentrate sul consumo e l’utilizzo di materie prime o di altri oggetti (ad es., farina o tovaglioli nel caso di ristoranti, guanti monouso, per quanto riguarda i dentisti) che, secondo il Fisco, potrebbero essere indicativi di un maggior  reddito  rispetto  a  quello dichiarato. Accade, allora, frequentemente che l’Amministrazione proceda alla rettifica dei ricavi del contribuente, proprio tramite una ricostruzione che prende le mosse dal consumo di quanto contabilizzato per risalire al reddito prodotto.

Altresì, per rendere maggiormente verosimile il risultato delle loro ricostruzioni, a volte i verificatori propongono dei questionari nell’ambito delle indagini ed inseriscono nel processo verbale di constatazione le specifiche risposte fornite dall’imprenditore, o dai suoi dipendenti, le quali poi possono risultare pienamente utilizzabili quali elementi di prova e fondatezza della ricostruzione e quindi, nell’eventuale contenzioso, anche di convincimento del giudice. Nondimeno, essi a volte cercano addirittura di valorizzare contro il contribuente non solo le dichiarazioni del soggetto verificato, ma anche affermazioni del professionista o, come nel caso in argomento, perfino di un dipendente del consulente che assisteva il cliente dello studio nell’ambito di una verifica fiscale.

Trascurando ogni commento sulla correttezza e sul profilo etico di un simile atteggiamento, risulta confortante apprendere che, diversamente da ciò che ritenevano i verificatori, per la Commissione tributaria regionale di Palermo (sentenza 628/12/17) le dichiarazioni rese da un dipendente del commercialista sono state ritenute inidonee a sorreggere l’accertamento emesso a carico di un cliente dello studio.

La vicenda in questione trae origine da un controllo effettuato nei confronti di un odontoiatra, durante il quale i verificatori avevano rinvenuto un’agenda ritenuta sintomatica dell’occultamento di compensi e, al fine di provare la sussistenza di evasione fiscale tramite una ricostruzione presuntiva del numero dei pazienti, avevano chiesto conto di questa anomalia e di altre ipotesi di irregolarità ad una dipendente dello studio professionale incaricato della contabilità, la quale era stata delegata dal professionista a rappresentarlo durante il controllo.

Nell’evidenziare che il planning della clientela rinvenuto durante la verifica non poteva sorreggere la contestazione induttiva di maggiori compensi percepiti in quell’anno, in quanto relativo ad un’annualità diversa da quella accertata, il collegio palermitano respingeva le pretese dell’Ufficio anche per l’utilizzo di presunzioni prive dei requisiti della gravità, precisione e concordanza, stante un erroneo sfrido attribuito al numero dei guanti monouso necessari per lo svolgimento dell’attività posto a base della ricostruzione. Sul punto, peraltro, appare utile ricordare che, per la Cassazione, i block-notes e le agende del dentista ben potrebbero rappresentare un valido elemento indiziario dotato dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, legittimante il ricorso all’accertamento induttivo (ex pluribus, Sentenza 20492/13), ovviamente, però, nel contesto di controlli non sorretti solo dal tentativo dei verificatori di cercare di trasferire con eccesso di semplificazione, da un anno all’altro, ipotesi di evasione fiscale.

Tuttavia, aldilà del merito della questione, l’aspetto interessante della sentenza in commento deriva soprattutto dalla circostanza che nella stessa è stato statuito che le dichiarazioni rese dalla dipendente del consulente, meramente delegata per l’assistenza alle operazioni di verifica e non avente alcun rapporto di lavoro con il dentista verificato ma solo con il suo studio di consulenza, non possedevano nessun valore indiziario.

Su questo punto, però, trattasi di una sentenza sintomatica e di ammonimento esemplare, perché i verificatori, nella formazione dei loro rilievi, possono porre a fondamento ogni informazione e notizia raccolta in verifica ed utile a confermare i loro convincimenti, comprese le dichiarazioni che sicuramente, con lealtà e buona fede, quella dipendente dello studio professionale aveva fornito ai funzionari del Fisco, immaginando di poter aiutare il proprio cliente a spiegare un’anomalia.

In conclusione, quindi, la morale ritraibile da questa vicenda è chiara ed inequivoca: quando si delega all'assistenza della verifica fiscale un collaboratore di studio, che conosce perfettamente le questioni contabili del cliente, ma meno le possibili implicazioni giuridiche del proprio comportamento in verifica, appare utile che il professionista si premuri sempre di ricordargli quel noto proverbio che recita “un bel tacer non fu mai scritto”.

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