DOPO IL DANNO, POSSIBILE LA BEFFA: ANCHE LE PARCELLE NON INCASSATE POSSONO FARE REDDITO

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Parcella non incassata ? E' comunque reddito. Sono queste le conclusioni a cui è approdata la Corte di Cassazione con l'ordinanza n. 28253/2022 considerando incassati e, quindi, imponibili quali reddito di lavoro autonomo (ex art. 54 del TUIR) i compensi indicati da un professionista in una parcella mai saldata.

Nel caso di specie, in sede di accertamento il contribuente non era stato in grado di fornire ai verificatori la prova della mancata percezione di un compenso fatturato cosicché, a quel punto e tanto quanto aveva accertato l'Ufficio, la Suprema Corte ha confermato quei compensi come reddito imponibile nel periodo d’imposta di emissione della fattura e  facendo così inopinatamente coincidere quel momento con quello dell’incasso.
Francamente, tale tesi non appare in alcun modo condivisibile e, in assenza di specifici elementi probatori, appare illegittimo che i giudici abbiano deciso di presumere l’incasso della fattura nel momento della relativa emissione.

Infatti, i compensi concorrono alla determinazione del reddito di lavoro autonomo professionale in base ad un rigoroso principio di cassa. Pertanto, una parcella emessa, ma non incassata entro la fine del periodo d'imposta, non dovrebbe mai generare un provento fiscalmente rilevante in detto periodo d'imposta ed il componente positivo diverrà imponibile solo all'atto dell'incasso.

Chiaramente, nell'ipotesi in cui il professionista abbia emesso una fattura (o parcella) in relazione ad una prestazione già eseguita a fronte della quale, tuttavia, non abbia ricevuto il pagamento, sussiste sicuramente l'obbligo di registrare l'operazione ai fini IVA e di procedere con la liquidazione e il versamento dell'imposta (in quanto, ex art. 6 del DPR 633/72, per le prestazioni di servizi l'esigibilità IVA si realizza all'atto del pagamento, ovvero all'atto dell'emissione della fattura, se anteriore al pagamento), ma certamente l'operazione in questione non è mai suscettibile di generare reddito.

Conseguentemente, se l’Amministrazione finanziaria non dimostra l’avvenuto incasso del corrispettivo, non si capisce perché dovrebbe incombere sul contribuente la necessità di doverne provare la mancata percezione, nell’evidente impossibilità di dimostrare un fatto negativo.

Tuttavia, l'unica via per sfuggire a questa palese iniquità giurisprudenziale sembrerebbe solo quella di acquisire in via prudenziale e preventiva elementi probatori normalmente richiesti alle imprese per rilevare e dedurre una perdita su crediti.

Ad esempio, acquisendo documenti attestanti l’esito negativo di azioni esecutive semmai sulla base di una valutazione complessiva della situazione economica e patrimoniale del debitore, oppure dimostrando di aver esperito tentativi di recupero del credito senza esito o, semmai, documentando che un legale sconsiglia l’instaurazione di procedure esecutive.

In ogni caso, da questa vicenda emerge con nettezza una necessità di dover prestare sempre attenzione anche agli insoluti professionali e di saper documentare all'occorrenza anche un eventuale mancato di incasso dei crediti da prestazione e ciò almeno quando non è possibile sostituire la fattura immediata con un avviso di parcella: ma, per i giudici di legittimità, è invece pienamente giustificabile una presunzione di pagamento della fattura.

Sebbene tale conclusione si presti a palesi censure e pur non essendo plausibile che il momento dell'emissione della fattura debba per forza coincidere con quello del pagamento per presunzione giurisprudenziale, il rischio di vedersi confermare un accertamento anche su reddito inventato è ora ufficializzato anche in un'ordinanza della Cassazione e, quindi, non è impossibile.

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