Il sacrificio del professionista

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Gli ordini e gli studi professionali sono alle prese con un fenomeno nuovo, la ormai endemica carenza di talenti e di vocazioni. La cancellazione di avvocati dall’albo ben prima dell’età della quiescenza. Giovani notai vincitori di concorso che rinunciano alla sede faticosamente conquistata. Sembra che nessuno voglia più fare le libere professioni. Poche prospettive di guadagno, enormi difficoltà a mettersi in proprio, bilanciamento tra vita lavorativa e vita privata sostanzialmente inesistente. Anche il praticantato è un parcheggio momentaneo che attira ormai solo persone in attesa di una più seria occupazione.

Diciamocelo, la gente non ha tutti i torti. La maggior parte di noi professionisti conduce una vita di m***a. E se una volta il sacrificio era compensato dallo status sociale, da una buona remunerazione e dalla soddisfazione lavorativa, ora tutto questo è venuto meno.

Vien da pensare che la vita privata del professionista si chiami così perché gli è stata tolta. Da questo punto di vista, i millennials hanno molto da insegnarci.

Ho conosciuto uno studente di informatica che ha accettato di lavorare in uno studio professionale per mantenersi all’università. Il suo compito è quello di tenere in ordine gli archivi informatici. Ha un contratto part time di 4 ore al giorno. Impegno reale: 5 minuti al giorno per lanciare un software da lui ideato nei primi 3 giorni dall’assunzione e controllare a campione i risultati ottenuti. Comportamento poco corretto ma sicuramente efficace.

Giovanni De Marchi così scrive su Linkedin. “L'esperienza di questi mesi da parte di alcuni amici in grandi studi e aziende internazionali mi induce a riflettere.
Si tratta di ambienti che pretendono abnegazione totale e sottomissione assoluta.
Che non chiedono che si sappia lavorare, ma che si lavori molto.
Che inducono sensi di colpa in chi abbia una propria vita personale.
Che esigono reperibilità h24 - 7/7.
Nelle quali spesso si cazzeggia per ore, salva la solita impennata dalle 18.00 in poi.
In cui ogni lavoro deve essere consegnato alle 05.00 di mattina, facendo sistematicamente le notti, altrimenti chi credi di essere?
Il tutto per che cosa? Non parliamo di chirurghi in sala operatoria né di astronauti in missione, ma di neolaureati consulenti o contabili o praticanti avvocati cui si insegna a lavorare così fin da piccoli: senza saper organizzare i tempi, senza rispetto per gli altri, senza rispetto per sé stessi.
Non sto difendendo i lavativi, ma sto perorando la causa di chi non ha la forza di opporsi al "si è sempre fatto così", di chi non ha la possibilità di emergere col proprio talento, di chi è obbligato a sottostare ai capricci di superiori frustrati e, spesso, umanamente falliti.
Poi ci lamentiamo che i giovani non crescono: ma ritengo che un superiore, un Capo vero, debba insegnare ad avere anche una vita propria. A divertirsi. A diversificare. A farsi una famiglia. Ad avere amici. Ad andare al cinema. Rendendosi conto che, con una vita piena, si lavora meglio.
Forse, alcuni di questi mega-studi sono delle vere strutture di peccato, che "rapiscono" i dipendenti per anni, per svuotarli di aspirazioni, di ricchezza umana, di orizzonti culturali, di ambizioni famigliari. Alla fine, forse, sono strutture di peccato più dei bordelli”. Il suo provocatorio post mi richiama alla mente il titolo di un articolo in inglese che ho letto tempo fa. “Se hai così tanto successo perché lavori ancora 60 ore alla settimana?” Così la pensa Laura Empson, docente di management all’Università di Londra e grande conoscitrice delle professional firm di tutto il mondo. Laura sostiene che ai vertici degli studi professionali si crea una selezione avversa perché si continua a premiare chi è sempre in studio senza guardare alla produttività reale e all’equilibrio della persona.

D’altronde, è facile farsi prendere nelle spire di una professione tempivora dove le pratiche sono spesso caratterizzate da picchi imprevedibili della domanda, vizi inizialmente occulti e altre onerosità sopravvenute. Con l’aggravante che il perfezionismo tipico del professionista impedisce molto spesso di erogare pratiche di qualità accettabile ma non sopraffina. L’accanimento terapeutico è sempre in agguato. Il rischio è però quello di diventare dei workaholic, dove lo sforzo produttivo diventa fine a sé stesso o addirittura il sacrificio diventa esso stesso fonte di piacere, o financo un alibi per non affrontare la vita. Chiudetemi in una stanza a fare bilanci ma non fatemi parlare con i clienti e soprattutto non fatemi gestire il personale. Domenica vengo in studio a leggere il giornale perché mia moglie non mi vuole più per casa, che deve giocare a canasta con le amiche. Un modo “tombale” di intendere la professione. Gli esempi di questi comportamenti sono dappertutto. Ho avuto una capo contabile che lavorava costantemente 10 ore al giorno compresi i weekend. Sosteneva che imputare fatture la rilassasse. C’è uno studio che costringe i praticanti a presentarsi ogni sabato mattina anche quando sono sfaccendati, tanto per abituarli.

Sottesa all’immolarsi del professionista c’è l’idea che solo il sacrificio produce risultati. E invece l’esistenza di una relazione diretta tra sacrificio e risultati è ancora tutta da dimostrare. la cultura occidentale è intrisa da secoli dall’idea che senza prima il dolore, la privazione, il sacrificio non arriva il Paradiso. E’ evidente l’influenza dalla morale cristiana come di altre religioni.

Era forse Bill Gates che diceva che tra due persone da assumere, egualmente brave, occorre sempre privilegiare quella più pigra. Ti farà il lavoro in metà del tempo. Il professionista, invece, se ci sono due modi di fare le cose sceglierà sempre quello più lungo e faticoso. Per aspera ad astra.

Se vogliamo evitare le derive sado-masochistiche che possono velocemente portare all’estinzione delle professioni, serve innanzitutto sistematizzare il sapere pratico professionale per renderne più agevole e veloce la trasmissione ai giovani evitando gli attuali metodi iniziatici e sciamanici. Sono troppo lunghi. Occorre affrontare i singoli incarichi con un approccio da Professionista Riflessivo (Schein) in modo da apprendere ogni volta a lavorare sempre più velocemente e sempre meglio. Necessita infine iniziare una profonda riforma dei meccanismi di carriera e di valutazione negli studi professionali di ogni dimensione e latitudine, orientandola verso una reale meritocrazia.

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