MANGIARE E DORMIRE IN UFFICIO NON FA BENE NEANCHE ALLA VERIFICA FISCALE

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Come noto, nell’ambito delle attività di verifica fiscale sono previste differenti tipologie di accesso, con relativi e differenziati regimi autorizzatori, a seconda il controllo fiscale debba essere effettuato in locali esclusivamente adibiti ad attività lavorative, luoghi ad uso promiscuo e locali presso l’abitazione.

Un immobile, peraltro, è definibile ad uso promiscuo quando sia stato adibito dal contribuente, imprenditore o professionista, sia per lo svolgimento dell’attività lavorativa sia come abitazione.

L'accesso in tali ambiti è consentito ai fini dell'Iva, dall'articolo 52, primo comma, del Dpr n. 633/72 e, ai fini delle imposte sui redditi, dall'articolo 33, primo comma, del Dpr n. 600/73, su autorizzazione del Procuratore della Repubblica territorialmente competente, oltre che sulla base di apposito ordine di accesso. In tal caso, le vigenti disposizioni non richiedono la sussistenza di “gravi indizi di evasione”, come invece avviene per gli accessi nelle abitazioni private.

La Guardia di Finanza, nelle risposte fornite in occasione di Telefisco 2018, ha dato la sua interpretazione della promiscuità, affermando che il contribuente potrà opporre le garanzie dell’inviolabilità del domicilio, derogabili con autorizzazione del PM in presenza di “gravi indizi di evasione”, solo per gli accessi in luoghi destinati, in via esclusiva, ad abitazione privata. Non anche, quindi, per quelli “promiscui” per i quali, invece, può bastare un’autorizzazione “light” del PM, ovvero un beneplacito del magistrato senza motivazione specifica.

Peraltro, per la GdF, perché un immobile possa essere qualificato come "promiscuo" sarà necessario che il contribuente, imprenditore o professionista, vi abbia stabilito il centro effettivo della vita intima e privata propria e familiare, risultando insufficiente la mera predisposizione di alcuni vani o spazi dell'immobile per il saltuario pernottamento, la consumazione di pasti ovvero la mera dichiarazione dell'interessato non suffragata da evidenze esteriori.

In sostanza, non basterà che all’interno di un negozio vi sia un locale adibito ad uso cucina per poter far considerare “promiscuo” un ambiente di lavoro, anche se la locuzione usata dalla GdF nella risposta fornita, richiamante il “centro effettivo della vita intima e privata propria e familiare”, non brilla per particolare chiarezza.

Tanto per sdrammatizzare un po’ il tema, infatti, potrebbe anche non escludersi l’ipotesi di “promiscuità” per uno studio professionale all’interno del quale qualche stanza fosse stata arredata ad alcova non occasionale, a fini di intimità propria extra-familiare (sconsigliabile, tuttavia, opporre ai militari una simile eccezione perché, a quel punto, il problema diventerebbe più il coniuge del professionista che la Guardia di Finanza).

Stante, peraltro, un inciso tra parentesi proposto nel testo della domanda posta al Telefisco 2018 (sul tema del rapporto tra la dimora ed una diversa residenza anagrafica), dalla risposta fornita dalle Fiamme gialle sembra emergere inequivocabilmente una conferma: è da considerare accesso in luogo destinato ad abitazione privata quello effettuato in un locale abitativo/lavorativo in cui un cittadino abbia fissato la sua residenza anagrafica. Quello, infatti, deve ritenersi il luogo, per presunzione di legge, in cui una persona ha la dimora abituale e vive in modo stabile e duraturo e che quindi, salvo prova contraria, ivi svolge la sua vita personale e semmai, per sostenere la stessa, anche quella lavorativa.

In altri termini, senza dubbio a parere di chi scrive, per l’accesso nei locali “promiscui” ove il contribuente non ha residenza anagrafica (ma prova comunque una stabilità di dimora) potrebbe bastare un’autorizzazione “light” del PM, mentre per accedere ai locali “misti”, ma ove un cittadino dimora in maniera inequivocabilmente provata dai registri anagrafici comunali, occorre sempre l’autorizzazione del PM motivata dai “gravi indizi di evasione”.

In conclusione, in giudizio si potrà provare l’effettiva destinazione di locali ad attività rientranti nella sfera privata in due modi: il primo, iscrivendoci la residenza formale, il secondo dando prova dell’effettività di una vita tutta “casa-bottega”, circostanza tuttavia che, in concreto, sarà alquanto ardua da provare.

Concludendo, se in un luogo non si risulta formalmente residenti, la Guardia di Finanza ritiene (al più con un placet informale del PM) di potervi sostanzialmente entrare ed uscire come vuole (ovvero, in forza anche di un proprio ordine di servizio)  e senza, quindi, alcun riguardo alla circostanza che, oltre a scrivanie, computer e sedie, in un luogo di lavoro vi sia magari anche un comodino ed una luminosa abat-jour a fianco di un letto che semmai, durante notti agitate ed insonni, potrà comunque servire ad illuminare la lettura da parte del contribuente di un PVC delle conclusioni della verifica fiscale che, almeno per le Fiamme gialle, non sarebbe mai considerabile fondato su dati illegittimamente acquisiti per violazione della sfera privata.

Vedremo, però, se proprio tutti i giudici saranno d’accordo con questa visione della legittimità dell’azione di verifica.

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