Prelievi dal conto corrente: la Cassazione fissa i limiti di utilizzo nel processo penale

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In una recente pronuncia, la Suprema Corte è tornata ad affrontare il tema della valenza probatoria delle indagini finanziarie, effettuate nei confronti di un contribuente titolare di reddito d’impresa operante nel settore della logistica ed in particolare dell’utilizzo, ai fini dell’accertamento di fattispecie di reato, delle informazioni relative ai prelevamenti, effettuati dal conto corrente al medesimo intestati, ossia, in termini più espliciti, della valenza indiziaria di tali fatti della produzione di ricavi non dichiarati al Fisco.

Prima di analizzare i principi espressi dalla citata sentenza, occorre fare il punto sulla disciplina fiscale applicabile in materia di accertamento dell’imposta sul reddito e sui suoi riflessi in chiave sanzionatoria, laddove evidentemente dall’attività dei verificatori possa rilevarsi la sussistenza di una violazione penalmente rilevante.

Procediamo con ordine, richiamando la specifica normativa tributaria che fissa presupposti e limiti di utilizzo di tale presunzione legale nella ricostruzione del reddito prodotto da soggetto passivo.

La presunzione fiscale dell’articolo 32 del DPR 29 settembre 1973, n. 600.

Come noto, l’articolo 32 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, disciplina, nell’ambito delle imposte dirette, i poteri degli Uffici dell’Amministrazione finanziaria volti all’accertamento dei predetti tributi.

In particolare, il comma 1, n. 2), della citata disposizione stabilisce che le informazioni, acquisite dagli intermediari finanziari ai sensi del successivo n. 7) e relative ai rapporti intrattenuti con il soggetto assoggettato a verifica fiscale, sono poste alla base delle rettifiche e degli accertamenti, in quanto considerate, alle condizioni che ora vedremo, come ricavi non dichiarati.

Al riguardo, infatti, la richiamata norma prevede che qualora sussistano dei prelevamenti:

  • per i quali il contribuente non indichi il beneficiario;
  • e che non risultino dalle scritture contabili;

tali movimentazioni possono essere collegate alla produzione di ricavi dell’attività d’impresa svolta dal soggetto interessato dalla verifica, avendo valenza di presunzioni legali.

Tuttavia, affinché i prelevamenti possano avere una tale rilevanza, gli stessi devono superare congiuntamente le seguenti soglie di valore:

  • euro 1.000,00 giornalieri; e, comunque,
  • euro 5.000,00 mensili.

Come chiarito dall’Amministrazione finanziaria in un recente documento di prassi (Agenzia delle Entrate, Circolare 7 aprile 2017, n. 8, par. 19), le due condizioni sono concorrenti: ciò sta a significare che tutti i prelevamenti superiori al primo limite sono fiscalmente rilevanti a condizione che la somma complessiva dei prelevamenti del mese, preso in esame, sia superiore alla seconda soglia. Pertanto, qualora il soggetto interessato prelevi nella giornata somme superiori ai 1.000 euro giornalieri, ma non superiori nel mese i 5.000 euro, tali fatti non potranno avere alcuna valenza indiziaria della produzione di ricavi.

Occorre ora chiedersi se tale meccanismo possa operare, e a quali condizioni, nell’accertamento dell’illecito penaltributario: può infatti accadere, ed anzi sovente si verifica, che l’evasione accertata dall’Agenzia delle Entrate superi le soglie di punibilità, previste dalle fattispecie incriminatrici contenute nel decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, e, conseguentemente, a tale attività segua la comunicazione della notizia di reato alla Procura della Repubblica territorialmente competente per l’avvio del procedimento penale.

 La sentenza conferma l’orientamento garantista della Cassazione

Ebbene, la Cassazione, nella sentenza n. 13334, depositata il 27 marzo 2019, ha stabilito che tali informazioni di natura finanziaria, sebbene da sole non costituiscano fonti di prova del reato tributario, possono essere valutate liberamente dal giudice penale insieme ad altri elementi probatori, attraverso i quali “puntellare” l’ipotesi accusatoria.

Nel caso deciso dalla Suprema Corte, in cui l’imprenditore era imputato del reato di omessa dichiarazione IVA di cui all’articolo 5 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, i giudici di merito avevano accertato il reato, ponendo alla base della condanna oltre che le risultanze delle indagini finanziarie, peraltro epurando le operazioni qualificabili come “neutre” ossia giustificate, anche l’attività svolta dalla Guardia di Finanza, per mezzo dell’invio di questionari e accessi presso clienti e fornitori dell’impresa.

Pertanto, la Cassazione ha potuto agevolmente verificare il rispetto del predetto principio di diritto e confermare la condanna di un anno di reclusione, inflitta dalla Corte d’Appello.

L’orientamento della giurisprudenza quindi ha, in maniera equilibrata, posto in essere un bilanciamento di interessi, evitando che il Pubblico Ministero utilizzi sic et simpliciter i risultati delle indagini svolte dall’Amministrazione finanziaria in ambito amministrativo e, contestualmente, garantendo all’imputato la facoltà di contestare tali presunzioni legali, attraverso la dimostrazione, sul piano probatorio, del mancato raggiungimento della prova del fatto di reato.

Normativa

Art. 32, comma 1, n. 2) e n. 7), del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600.

Art. 5 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74.

Prassi amministrativa

Agenzia delle Entrate, Circolare 7 aprile 2017, n. 8, par. 19).

Giurisprudenza

Cassazione, Sez. III penale, 27 marzo 2019, sent. n. 13334.

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