Presunzione di distribuzione del “nero”: con la riforma del processo, l’utopia diventa (forse) realtà

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Tanto tempo fa, c'era un contribuente che sognava un Paese fiscale: Utopia. Un paese in cui vi era un principio cardine del processo tributario: l'onere della prova deve essere assolto dall'ente impositore.
Nel commentare allora il nuovo art. 7 co. 5-bis del DLgs. 546/92, introdotto dalla L. 130/2022, c'è chi ha intravisto la materializzazione anche in Italia di una città simile a quella sognata da Tommaso Moro: una società giusta e felice che, in virtù della sua perfetta organizzazione, potrebbe liberarsi da qualche male che ancora affligge la convivenza tributaria.

Il nuovo citato comma del DLgs. 546/92 ora prevede: "L'amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l'atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l'atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l'irrogazione delle sanzioni (...)"

Appare allora luminosamente chiaro che, con una simile ridefinizione dell’istituto dell’onere della prova, potrebbero risultare definitivamente travolte le presunzioni nomofilattiche di matrice giurisprudenziale.

Ovviamente, con il citato comma 5-bis dell’art. 7 del DLgs. 546/92, dal 16 settembre 2022 non sono defunte le presunzioni legali (relative o assolute) che invertono automaticamente l’onere della prova a danno del contribuente, ma si dovrebbero essere incrinate definitivamente le presunzioni elaborate dalla giurisprudenza e, tra le più odiate, la presunzione di distribuzione degli utili neri ai soci delle società di capitali ristrette, tramite la quale si ritiene possibile accertare un socio di società di capitali a ristretta base sociale in ragione di maggiori ricavi extracontabili accertati in capo alla società e attribuendoli pro quota ai soci, nel corso dello stesso esercizio annuale.
Alla presunzione in argomento, infatti, basta preliminarmente un valido accertamento in capo alla società, la presenza della ristrettezza della compagine sociale della società di capitali e, meramente alla luce di ciò, fino ad oggi è spettato al contribuente fornire la prova contraria.
Ecco, però, che Consiglio e Fondazione nazionale dei commercialisti, indossando le vesti di Tommaso Moro, hanno recentemente affermato a chiare lettere che il nuovo obbligo posto a carico del fisco fa sì "che solo nelle ipotesi di inversione legale dell’onere probatorio, al di fuori e già prima del processo, l’amministrazione finanziaria possa esimersi dal fornire la prova in giudizio, a pena di annullamento dell’atto da parte del giudice”.
Conseguentemente, nell’ipotesi di contenziosi su utili “neri” sarebbe ora l’Ufficio ad essere onerato della prova dell’avvenuta distribuzione, da parte della società, dei maggiori utili accertati (a loro volta presunti), e, successivamente, dell’avvenuta percezione, da parte dei soci, di quei maggiori utili.
A questo punto sembrerebbe pacifico che questa nuova ripartizione faccia incombere sull’Amministrazione finanziaria quella necessaria dimostrazione dell’esistenza di un imponibile potenzialmente sottratto a imposizione, semmai tramite strumenti quali le indagini finanziarie per individuare, ad esempio, versamenti non giustificati per poter giustificare come realizzata la percezione della quota parte del maggior utile accertato in capo alla società.
Si ha, peraltro, ragione di ritenere queste conclusioni possano analogamente valere anche per il caso di accertamenti sui costi ritenuti indeducibili.
In tali ipotesi, infatti, la Cassazione ha ritenuto operante la stessa presunzione di distribuzione indiretta di utili ai soci, i quali in tali casi percepirebbero il maggior reddito risultante dalla rettifica in diminuzione dei costi deducibili.

Ad auspicare questo nuovo progetto di un processo tributario perfetto e basato sull’effettiva uguaglianza tra Fisco e Contribuente (in maiuscolo) sono, da qualche settimana, il Consiglio e la Fondazione nazionale dei commercialisti, che hanno diffuso tale visione con il documento di ricerca pubblicato il 14 dicembre 2022.
Speriamo che anche la magistratura tributaria condivida una posizione che appare giuridicamente inappuntabile.

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