UN “CORTESE” INVITO NON E’ UN INVITO ALL’ADESIONE

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Oggi vi racconterò una piccola storia triste: a seguito di processo verbale di constatazione consegnato dai verificatori, un contribuente presentava un’istanza di adesione. A quel punto, quindi, l’ufficio trasmetteva un invito a comparire che, tuttavia, risultava privo dei contenuti previsti dal D.Lgs 218/1997. In altri termini, il contribuente veniva invitato in Ufficio con una lettera generica che, al più, poteva assomigliare ad un ordinario invito a comparire notificato al contribuente, ex art. 32 del DPR 600/73, per fornire dati e notizie rilevanti ai fini dell’accertamento nei suoi confronti.

Il tentativo di adesione promosso dal contribuente non aveva esito, cosicché l’Ufficio notificava l’avviso di accertamento. Poiché, tuttavia, il contribuente non disperava di poter riuscire a dimostrare le sue ragioni per mitigare le pretese erariali, dopo l'accertamento presentava nuovamente un’istanza di adesione, ma anche questo tentativo non andava a buon fine. A quel punto, non rimaneva che presentare ricorso tra il sessantesimo e il centocinquantesimo giorno dalla notifica dell’accertamento ed il contribuente lo presentava proprio oltre il termine ordinario previsto in 60 giorni.

Qui, però, nasce il caso e la storia si incupisce: l’Agenzia delle Entrate, infatti, eccepiva in giudizio l’inammissibilità del ricorso per decadenza dei termini. In sostanza, secondo la visione del Fisco, l’istanza di adesione prodotta dal contribuente dopo la notifica dell’accertamento non avrebbe prodotto l’effetto di dilatare il termine di 90 giorni per la proposizione del ricorso.

In altri termini, l’ufficio opponeva l’art. 6, comma 2 del DLgs. 218/97, secondo cui l’istanza di accertamento di adesione presentata dopo la notifica dell’accertamento produce l’effetto di sospendere il termine del ricorso per quasi tre mesi, ma all’esclusiva condizione che l’ufficio non abbia già trasmesso un invito a comparire nella fase preventiva delle indagini.

Tuttavia, in tutte le fiabe in cui c'è un cattivo da battere arriva sempre il lieto fine: in senso favorevole al contribuente, infatti, detta controversia è stata affrontata e risolta dalla Suprema Corte (Cass. n. 30577/2017), la quale ha stabilito che un invito a comparire privo del contenuto essenziale stabilito dall’art. 5 del DLgs. 218/97, non impedisce un ulteriore tentativo di adesione dopo la notifica dell’accertamento, in quanto una lettera di cortesia (o, ancor più, un colpo di telefono per pianificare un incontro in Ufficio) non può essere tecnicamente assimilata neanche ad un ordinario invito a comparire ex art. 32 del DPR 600/73.

In ogni caso, aldilà del fatto che nel caso di specie la questione abbia avuto apparente lieto fine, non può sfuggire come al contribuente sia stata ingiustamente imposta la penosità di dover sopportare fino al giudizio della Cassazione un’eccezione di inammissibilità, su una questione che, invece, poteva e doveva essere risolta sul piano della collaborazione e della buona fede. L’Ufficio, infatti, avrebbe ben potuto comunicare al contribuente, una volta ricevuta l’istanza di adesione post-accertamento, quale sarebbe stata la sua, ancorché opinabile (rectius: illegittima), interpretazione.

Tuttavia, come noto, un’istanza presentata dal contribuente non vincola l’ufficio finanziario a fornire una risposta, perché il procedimento di adesione, anche se avviato su istanza di parte, è da ritenere discrezionale.

Quindi, è solo se l’Amministrazione finanziaria intende dare seguito all’istanza di adesione che essa emette un invito a comparire ex art. 6 comma 4 del DLgs. 218/97, ma gli uffici possono sempre opporre ad un’istanza di adesione anche il silenzio con il valore sostanziale di rifiuto.

Ora, però, se la necessità di trovare un accordo non può ovviamente essere ritenuta obbligatoria per gli enti impositori, non si capisce perché sull’Ufficio non debba mai incombere almeno l’onere di dover confermare la volontà, o meno, di dar corso ad un procedimento di accertamento con adesione, semmai spiegando le ragioni del diniego.

A volte, infatti, con un minimo di collaborazione e buona fede si potrebbe evitare addirittura un giudizio di Cassazione che in punto spese (particolare non trascurabile) di fatto pagano sostanzialmente quasi sempre solo i ricorrenti: da un lato, dovendo sostenere le proprie spese legali, dall’altro lato dovendo contribuire, in qualità di contribuenti, al mantenimento dell’apparato legale anche della controparte. Purtroppo, allora, nulla cambierà in questo ambito fino a quando nella dinamica di questi rapporti la previsione del pagamento del conto sarà a carico, di fatto, solo di un contribuente trattato alla stregua del simpatico ortolano, costretto sempre a vigilare attentamente su queste inopinate eccezioni di inammissibilità per evitare di fare la fine evocata dal noto aneddoto metaforico. Tempo fa, un amareggiato professionista veneziano, vittima di una vicenda simile che lo aveva pesantemente coinvolto anche in termini di responsabilità professionale risolta solo in Cassazione, ebbe a commentare: “No xe beo, ciò”… (frase che, per il resto d’Italia, va tradotta in: “Questo non è bello”…).

Non tutti, però, sanno conservare quella non comune pacatezza e civiltà nei confronti di un sistema insopportabile in questo genere di rapporti tributari e che, quindi, sarebbe da riformare alla radice nella direzione di un maggior rispetto del contribuente. Per il momento, però,  per non avere sorprese occorrerà fare sempre grande attenzione ai contenuti specifici degli inviti che gli Uffici recapitano.

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