In previsione del 2018 gli aumenti del contributo di licenziamento in caso di mobilità

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A partire dal nuovo anno, con il comma 2 dell’art. 16 del disegno della legge di bilancio, è in previsione il raddoppio della quota da versare da parte delle aziende per l’ingresso alla NASPI, qualora le stesse intendano cessare il rapporto di lavoro con i dipendenti, dopo aver proceduto alla riduzione collettiva del personale.

Tale misura è prevista per i datori di lavoro che gravitano in area cassa integrazione guadagni straordinaria, secondo la disciplina del decreto legislativo n.148/2015, normalmente imprese industriali che occupano fino a 15 dipendenti ed imprese commerciali fino a 50 dipendenti, comprendendo anche apprendisti e dirigenti. Sono inoltre esclusi da tale previsione anche i datori di lavoro che abbiano attività la procedura di licenziamento collettivo ai sensi della L. 223/91 prima del termine ultimo del 20 ottobre 2017.

Ma facciamo un veloce passo indietro, per ricordare ai lettori la storia del cd. “contributo di ingresso di mobilità”, in qualche modo riproposto dal legislatore anche nei casi di licenziamento individuale o plurimo, dal 2013, con la L. 92/2012.

La storica norma del “contributo di mobilità”, durata quindici anni prevedeva che i datori di lavoro rientranti nell’area CIGS, dovessero pagare un contributo di ingresso alla mobilità, con un onere a loro carico diversificato e quantificato sulla base del massimale CIG dei lavoratori licenziati, a seconda di talune condizioni:

  • Contributo pari a 9 volte il “Massimale Cig” per ciascun lavoratore licenziato, in caso di licenziamento collettivo intervenuto senza aver ottenuto l’intesa sindacale relativa alla procedura del licenziamento;
  • Contributo pari a 6 volte il “Massimale Cig” per ciascun lavoratore licenziato, in caso di licenziamento collettivo intervenuto senza aver ottenuto l’intesa sindacale relativa alla procedura del licenziamento, ma dopo aver utilizzato un periodo di CIGS;
  • Contributo pari a 3 volte il “Massimale Cig” per ciascun lavoratore licenziato, in caso di licenziamento collettivo intervenuto con un’intesa sindacale relativa alla procedura del licenziamento, indipendentemente dall’effettivo passaggio per lo strumento di integrazione salariale straordinaria.

Il contributo previsto era da versare in 30 rate mensili, e si quantificata sui lavoratori effettivamente licenziati con la precisazione che al momento della comunicazione di apertura della procedura, l’azienda era tenuta a versare un anticipo del contributo di mobilità, pari a una mensilità del trattamento lordo per ogni lavoratore che si intendeva licenziare, da recuperare poi su quanto veniva successivamente versato a saldo, in base agli effettivi licenziamenti.

La contribuzione sopra citata è stata poi sostituita dal 2017 dal cd. “Ticket di licenziamento” introdotto, come si diceva, anche per i licenziamenti individuali e plurimi, con decorrenza 01/01/2013. Si tratta di un contributo che ha fatto molto discutere gli addetti ai lavori, compreso chi scrive, perché più paragonabile ad una “Tassa sul licenziamento” dato che, tra le tante contraddizioni, è fatto obbligo di pagamento di tale contributo anche nel caso in cui il lavoratore licenziato non goda degli effetti del licenziamento (indennità NASpI) mancandone  ad esempio le ragioni soggettive o contributive oppure trovando immediatamente un nuovo impiego.

La “tassa sul licenziamento” o Ticket, è volto a finanziare la NASpI ed è quantificato sulla base di una somma pari al 41% del massimale mensile NASpI per ogni mese di anzianità aziendale negli ultimi 3 anni.

Per l’anno 2017 pertanto il contributo di licenziamento è pari a circa 490 euro per ogni anno di lavoro effettuato, proporzionato secondo le regole INPS, in base ai mesi di servizio effettivamente prestati, con un massimo di tre annualità, quindi a circa 1.470 euro.

Tornando al tema trattato, data la soppressione del cd. “contributo di mobilità” con la fine dell’anno 2016, il costo per la procedura è mutuato nel ticket licenziamento.

Tale modifica normativa ha portato dei costi evidentemente più bassi, stante il fatto che il datore di lavoro ha versato, per ogni lavoratore licenziato, una somma pari al 41% del massimale mensile NASpI per ogni 12 mesi di anzianità aziendale negli ultimi 3 anni per ciascun lavoratore, e quindi in funzione dell’effettiva anzianità di questi ultimi.

Non solo, anche la misura delle mensilità è stata soggetta ad importanti cambiamenti. Per effetto dell’articolo 2, comma 35, L. 92/2012, è stata prevista una penalizzazione analoga a quella in essere nell’impianto normativo precedente; nell’ipotesi in cui la dichiarazione di eccedenza del personale non sia oggetto di un accordo sindacale, il ticket di licenziamento viene moltiplicato per 3.

Confrontando quindi PRE e POST 2017 possiamo evidenziare questo schema:

Licenziamenti collettivi in area CIGS FINO AL 2016 DAL 2017
CON ACCORDO SINDACALE 3 mensilità del Massimale CIGS per ciascun lavoratore licenziato 1 Ticket Licenziamento per ciascun lavoratore licenziato
SENZA ACCORDO SINDACALE, A SEGUITO DI CIGS 6 mensilità del Massimale CIGS per ciascun lavoratore licenziato 3 volte il Ticket Licenziamento per ciascun lavoratore licenziato
SENZA ACCORDO SINDACALE, SENZA CIGS 9 mensilità del Massimale CIGS per ciascun lavoratore licenziato 3 volte il Ticket Licenziamento per ciascun lavoratore licenziato

Ma i lettori sanno che, quando il legislatore fa un passo verso i datori di lavoro in un anno, e non si può negare che lo scorso anno fosse stato fatto, ne potrebbe fare due in senso contrario l’anno successivo…ed eccoci quindi ai giorni nostri.

La previsione normativa per il 2018 è molto semplice: se l’aliquota massima della NASPI  passasse dal 41% all’82%, in caso di licenziamento collettivo, tenendo sempre conto dell’anzianità dei lavoratori, potremmo quindi ricapitolare  che il contributo di licenziamento nel 2018, nel caso dei licenziamenti collettivi in ambito CIGS, sarà pari al DOPPIO della quota ordinaria nell’ipotesi migliorativa, che rimane quella dell’accordo sindacale, mentre pari a SEI VOLTE la quota ordinaria nel caso di mancato accordo sindacale.

Senza voler essere inutilmente maligni, potremmo dire che questa norma per certi versi potrebbe favorire il sindacato anche per l’importante differenza tra il costo in caso di raggiungimento dell’accordo ed il costo della procedura priva dello stesso.

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