Acconto o caparra? fattura sì o no?

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La contrattazione immobiliare è uno di quegli ambiti in cui vi è la sensazione che vi sia una diffusa conoscenza di fondo, e non solo tra gli addetti ai lavori. Se facessimo un veloce sondaggio tra i nostri conoscenti, più o meno tutti ci saprebbero dire quali sono i passi da compiere per acquistare un immobile, ossia proposta di acquisto - preliminare - rogito, eventualmente mutuo, ecc ecc... Tutto facile, quindi.
Il diavolo però si annida nei dettagli.
Ci concentreremo in questo articolo, in particolare, su un aspetto squisitamente economico della vicenda, ossia quello relativo al trattamento (giuridico e fiscale) delle somme che vengono scambiate tra le parti prima del contratto definitivo di acquisto.
Infatti, al momento della firma di un preliminare (chiamato anche compromesso) per l’acquisto di un immobile, a conferma dell'impegno appena assunto, l'acquirente, o meglio il promissario acquirente, generalmente versa al proprietario una somma di denaro.
Proprio tale scambio di denaro ha importanti conseguenze sia dal punto di vista giuridico che fiscale che è bene tenere in considerazione per evitare spiacevoli sorprese.

Acconto o caparra?
Il titolo di questo paragrafo ci pone già davanti ad un dilemma. Anche i più "studiati" (ndr: licenza poetica tipo "Sono fortunato perché non c’è niente che ho bisogno“...) spesso confondono i due termini pensando siano tra loro sinonimi, ma in realtà non è così.

La confusione deriva dal fatto che se venditore ed acquirente rispettano l'impegno assunto, la somma di cui sopra altro non è che un acconto, ossia un anticipo sul pagamento del prezzo di vendita concordato, e quindi non c'è altro da dire.
Diverso è invece il caso in cui una delle parti sia inadempiente: in tale eventualità è necessario poter definire con certezza a che titolo è avvenuta la consegna della somma al momento della firma del compromesso.

Normalmente questa somma è considerata come un acconto, cioè, come detto, un puro e semplice anticipo sul pagamento del prezzo. Se il contratto non viene eseguito, quindi, la somma deve essere restituita a chi l'aveva versata, indipendentemente da ogni responsabilità per l’inadempimento.

Perché si possa parlare, invece, di caparra è necessario inserire nel contratto una clausola espressa che qualifichi tale somme come caparra, e che risulti la volontà delle parti di intenderla come tale.
La caparra può essere di due tipi, confirmatoria o penitenziale.

Nel caso di caparra confirmatoria, decisamente il più frequente, se l’acquirente rifiuta di acquistare, la somma versata potrà essere trattenuta dal venditore a risarcimento del danno subito, mentre se è il venditore che si rifiuta di vendere l’acquirente potrà chiedere la restituzione del doppio della somma versata. Tecnicamente si dice che la caparra confirmatoria ha la funzione di liquidazione convenzionale del danno da inadempimento, in quanto con essa le parti stabiliscono preventivamente l’importo del risarcimento spettante ad una parte in caso di inadempimento da parte dell’altra parte.

La caparra penitenziale consente invece a ciascuna delle parti di recedere dal contratto perdendo la caparra o restituendone il doppio.

Caparra confirmatoria e fatturazione. Cosa dice la Cassazione?
Dopo aver chiarito, seppur brevemente, la differenza tra acconto e caparra, nelle due declinazioni possibili, resta da esaminare il trattamento fiscale della caparra, non essendo sempre chiaro se vi sia o meno un obbligo di fattura della stessa.
Ogni valutazione circa l'obbligo o meno di fatturazione di cui si è detto deve necessariamente passare dalla corretta interpretazione del contratto (e quindi anche dalla corretta qualificazione della clausola relativa alla caparra confirmatoria).

Sul tema in esame segnaliamo una recente ordinanza della Cassazione, Sez. Trib., n. 3736 dell’8 febbraio 2019, che si è pronunciata in merito ad un avviso di accertamento con il quale l’Amministrazione finanziaria procedeva al recupero dell’iva per fatture non emesse relative proprio ad una somma versata a titolo di caparra confirmatoria.

Nella sentenza sopra richiamata, infatti, l’Agenzia delle Entrate ritiene che tali somme costituiscano acconto sul prezzo, in considerazione dell’entità dell’importo pagato (nel caso specifico, pari a circa il 63% dell’importo di vendita) e alla mancata stipulazione del contratto definitivo. Trattandosi di acconti sul prezzo di vendita, tali importi vanno fatturati ai sensi degli artt. 6 e 21, DPR n. 633/1972.

La Cassazione ribadisce invece la funzione naturale della caparra confirmatoria (ossia, di preventiva e forfettaria liquidazione del danno) affermando che essa non può costituire una anticipazione del corrispettivo (Cass., Sez. VI, ordinanza n. 10306 del 20 maggio 2015) e, dunque, non determina l’insorgenza del presupposto impositivo.

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