Crediti fiscali inesistenti – la Cassazione fa finalmente chiarezza

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In ambito tributario la distinzione tra crediti fiscali “inesistenti” e “non spettanti” ha da sempre messo a dura prova operatori ed interpreti, a vario titolo coinvolti nell’applicazione delle discipline che a tale concetto fanno riferimento, senza tuttavia fornirne un’apposita definizione o, quantomeno, un criterio logico da utilizzare. Invero, tale questione, lungi dall’avere una valenza accademica, ha rilevantissime conseguenze sul piano procedurale e, ancor più, su quello sanzionatorio, dovendo essere ben compresa per ponderare il rischio che l’utilizzo indebito di tali crediti può comportare sul piano della responsabilità patrimoniale e, per i casi di maggior gravità, su quello della libertà personale.

Il quadro normativo delle indebite compensazioni

Come noto, l’omesso versamento di tributi tramite compensazione di crediti inesistenti è soggetto a regole sanzionatorie ad hoc: in particolare l’articolo 27, comma 16, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, ha introdotto due specifiche previsioni, di cui:

  • una attinente al termine decadenziale dell’azione di recupero, il cui atto può essere notificato entro il 31 dicembre dell’8° anno successivo a quello in cui è avvenuta la compensazione con crediti inesistenti;
  • e una all’autore materiale dell’illecito, che è soggetto alla sanzione amministrativa pecuniaria dal 100 al 200% del tributo non versato.

La originaria mancanza di una definizione legale di credito inesistente

Ciò posto, tuttavia, il legislatore fiscale non ha fornito una specifica definizione di credito inesistente, ingenerando una comprensibile incertezza applicativa dei nuovi precetti. Peraltro, con riferimento al comparto punitivo gemello, cioè quello di stampo penalistico, la sussistenza di una fattispecie incriminatrice, come quella di cui all’articolo 10-quater del decreto legislativo 14 marzo 2000, n. 74, che parificava le condotte di utilizzo di crediti inesistenti a quelle di crediti non spettanti, legittimava il dubbio che tali ipotesi fossero parimenti sanzionate anche ai fini amministrativi.

Il credito inesistente nella riforma del 2015

Successivamente, la riforma fiscale del 2015 è tornata ad occuparsi del fenomeno delle indebite compensazioni, cercando di sciogliere il nodo fondamentale afferente alla natura dell’inesistenza.

In dettaglio, il decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 158, modificando l’articolo 13 del decreto legislativo 17 dicembre 1997, n. 471, ha introdotto una definizione espressa in forza del quale per credito inesistente deve intendersi il credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte:

Inoltre, la medesima disposizione ha previsto espressamente un trattamento sanzionatorio differenziato per l’utilizzo di crediti non spettanti: tale fattispecie è, infatti, punita con la sanzione amministrativa pari al 30% dell’imposta omessa.

Infine, al fine di armonizzare il sistema punitivo, il legislatore ha modificato la fattispecie penale di indebita compensazione, “sdoppiando” le condotte in ragione della “non spettanza” del credito o della “inesistenza”, attribuendo a tale ultima forma un trattamento sanzionatorio più severo.

Tale riforma, tuttavia, non ha posto fine ai dubbi interpretativi, soprattutto in seno alla giurisprudenza, essendosi formati due opposti orientamenti: uno, fedele alla lettera della legge; l’altro, incline a ritenere che ogni forma di indebita compensazione fosse comunque da ricondurre al regime introdotto dal l’articolo 27, comma 16, decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185 (vale a dire: termine decadenziale esteso a otto anni e sanzione dal 100 al 200%).

La Cassazione fa salva la dicotomia inesistenza/non spettanza

Senonché, in una recente pronuncia, la Suprema Corte sembra, almeno per il momento, aver avuto modo di sgombrare il campo da tale incertezza, sposando la tesi garantistica (Cassazione, Sez. V, 14 novembre 2021, n. 34444).

Nel caso sottoposto al vaglio del giudice di legittimità, infatti, ad una società era stato contestato l’utilizzo, ai fini IVA, di un credito inesistente maturato nel 2003, e utilizzato dal 2004 al 2008, in quanto in alcuni periodi d’imposta il contribuente non aveva compilato il Quadro VE della dichiarazione, non realizzando quindi operazioni attive, e nel 2006 aveva esposto esclusivamente operazioni esenti. Dunque, l’IVA sugli acquisti era indetraibile e non poteva formare credito.

Pertanto, in forza della previsione di cui all’articolo 17, comma 16, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, a tale contribuente era stato notificato atto di recupero dell’IVA non versata, in ragione dell’avvenuta compensazione con i crediti che l’Agenzia delle Entrate, applicando il severo regime contemplato dalla predetta norma, aveva qualificato come inesistenti.

Al riguardo, la Cassazione, ritenendo in un tal caso sussistente una fattispecie di mero credito non spettante, ha affermato il principio di diritto secondo cui, in tema di compensazione di crediti fiscali da parte del contribuente, l'applicazione del termine di decadenza ottennale presuppone l'utilizzo non già di un mero credito "non spettante", bensì di un credito "inesistente", per tale ultimo dovendo intendersi il credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo (il credito che non è, cioè, "reale") e soprattutto, come nel caso di specie, la cui inesistenza non sia riscontrabile mediante i controlli di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 36-bis e 36-ter, e al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54-bis.

In sostanza, quindi, proprio la circostanza che da un controllo della dichiarazione IVA tale irregolarità era emersa, ed era stata intercettata dall’Agenzia delle Entrate, ha convinto il giudice di legittimità a ritenere il credito non inesistente ma, puramente e semplicemente, non spettante.

Normativa

Art. 15, comma 1, decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 158.

Art. 27, commi 16 e 18, decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185.

Art. 10-quater decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74.

Art. 13, commi 4 e 5, decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471

Giurisprudenza

Cassazione, Sez. V, 16 novembre 2021, n. 34444.

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