PIR: in Gazzetta il decreto attuativo che cambia i piani di risparmio

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Con legge di bilancio per il 2019, per i PIR - piani di risparmio a lungo termine - è arrivato il momento del primo “tagliando” normativo: l’esperienza dei primi di due anni di vita di tale importante agevolazione fiscale aveva infatti dimostrato evidenti criticità, circa l’effettivo raggiungimento degli obiettivi di politica fiscale che avevano ispirato l’adozione della misura. La ratio, ad essa sottesa, era stata quella di far affluire capitali alle imprese italiane, ed in particolare modo alle PMI, tradizionalmente legate al canale bancario come fonte primaria di finanziamento.

Le falle della normativa

In verità, la disciplina istitutiva presentava nei vincoli di composizione del piano di risparmio un evidente “falla”: l’articolo 1, comma 102, della legge 11 dicembre 2016, n. 232, stabiliva infatti che nella quota destinata agli investimenti qualificati, pari al 70% del totale, il 30% doveva essere investito in strumenti finanziari emessi da imprese non quotate nell’indice di Borsa Italiana FTSE MIB (comprendente le quaranta società con maggiore capitalizzazione).

In sostanza, quindi, l’unico obbligo di veicolare i capitali verso le piccole e medie imprese era quello del 21% (70*30%): tuttavia, tra le società non appartenenti al richiamato indice, sono comunque presenti imprese di grandi dimensioni (basti pensare, ad esempio, al titolo ACEA S.p.A.), tutt’altro che annoverabili tra le PMI.

Altra falla era costituita dalla mancanza di un chiaro collegamento con il mercato primario degli strumenti finanziari, ossia con l’acquisto degli stessi direttamente dall’impresa e non attraverso il canale finanziario, rappresentato dai mercati regolamentati o dai sistemi multilaterali di negoziazione, solo in tal modo, infatti, si poteva assicurare l’afflusso di risorse direttamente alle imprese, evitando che le stesse “girassero” solo sul circuito finanziario.

La legge di bilancio per il 2019 corregge il tiro

Come noto, l’articolo 1, commi da 211 a 215, della legge 30 dicembre 2018, n. 145, ha rimodulato i criteri di composizione dei piani individuai di risparmio a lungo termine.

Ebbene, la quota-parte degli investimenti qualificati deve essere così suddivisa:

  • per almeno il 30% in strumenti finanziari emessi da imprese diverse da quelle inserite nell’indice FTSE MIB;
  • per almeno il 5% in strumenti finanziari emessi da piccole e medie imprese, come definite dalla raccomandazione 2003/361/CE della Commissione, del 6 maggio 2003, ammesse alla negoziazione in un sistema multilaterale di negoziazione;
  • per almeno il 5% in quote e azioni di fondi per il venture capital residenti nel territorio dello Stato o in Stati membri dell’Unione europea o in Stati aderenti all’Accordo sullo Spazio Economico Europeo.

Con riferimento a tale ultima asset class, il successivo comma della legge ne fornisce una definizione legislativa ad hoc: trattasi di organismo di investimento collettivo del risparmio che destina almeno il 70% dei capitali raccolti in investimenti in PMI, come definite dalla citata raccomandazione:

  • non quotate;
  • residenti nel territorio italiano o in uno Stato UE o SEE;
  • che soddisfano almeno una delle seguenti condizioni:
    • non hanno mai operato;
    • hanno operato da meno di sette anni in un mercato qualsiasi dalla loro prima vendita;
    • necessitano di un investimento iniziale che, sulla base di un piano aziendale per il lancio di un nuovo prodotto o nuovo mercato geografico, è superiore al 50% del fatturato medio annuo degli ultimi cinque anni.

La riforma, in sostanza, ha collegato l’agevolazione all’investimento nel settore del venture capital, attraverso l’aggiunta di due nuovi vincoli di composizione pari al 3,5% del totale (70*5%), corrispondenti, rispettivamente, all’investimento diretto in PMI e a quello indiretto, tramite appositi fondi comuni d’investimento.

Da ultimo, il comma 215 ha stabilito che con decreto da adottare entro 120 giorni dalla data di entrata in vigore della legge di bilancio, venissero stabilite le modalità e i criteri per l'attuazione del nuovo regime dei PIR.

Il D.M. 30 aprile 2019 trova la “quadra” sui nuovi vincoli

Con il decreto interministeriale 30 aprile 2019 la disciplina attuativa dei nuovi PIR ha finalmente visto la luce: va innanzitutto precisato che il citato decreto ha ad oggetto la quota-parte dei piani di risparmio riferibili al settore del venture capital, ossia il 5% negli investimenti diretti nelle PMI e il 5% nei fondi per il venture capital, dovendosi ritenere, per tutti i restanti aspetti, valevole la disciplina previgente la citata legge e i correlati documenti di prassi pubblicati dall’Amministrazione finanziaria.

Con riferimento a tale ultima asset class, i Dicasteri interessati hanno ampliato il suo raggio d’azione, poiché sono stati aggiunti, rispetto alla norma primaria (comma 213), i fondi di fondi per il venture capital, fornendone altresì un’apposita definizione: è tale l’organismo di investimento collettivo del risparmio, residente nel territorio italiano, che destina l’intero suo patrimonio in azioni o quote di fondi per il venture capital (articolo 1, comma 1, lett. f).

Il provvedimento attuativo ha poi fissato dei limiti attinenti agli strumenti finanziari conferibili in tale fetta: l’articolo 2, comma 2, stabilisce infatti che si considerano ammissibili gli strumenti finanziari di equity (azioni e altri strumenti partecipativi) e quasi-equity (strumenti ibridi con rischio più elevato del debito di rango senior e inferiore rispetto al capitale primario), definiti dalle lettere h) e i) della precedente disposizione.

Inoltre, ciascun emittente-PMI gli strumenti finanziari ammessi alle negoziazioni sui sistemi multilaterali di negoziazione e ciascuna PMI, i cui strumenti finanziari sono oggetto di investimento da parte dei fondi per il venture capital, possono ricevere un ammontare di risorse finanziarie superiore a 15 milioni di euro.

Viene poi coniata un’importante regola, applicabile sia all’investimento diretto che a quello indiretto, la quale stabilisce che è possibile acquistare strumenti ammissibili da un precedente investitore, id est nel mercato secondario, solo in combinazione con un apporto di nuovo capitale, pari almeno al 50% dell’ammontare complessivo dell’investimento. La ratio di tale previsione è quella di garantire un effettivo afflusso di risorse finanziarie alle PMI-target dell’agevolazione, ed evitare che tali capitali rimangano nel circuito degli intermediari finanziari senza alcun beneficio per l’economia reale.

Infine, il decreto ha stabilito che gli intermediari finanziari, presso i quali i PIR sono attivati, debbano farsi rilasciare dalla PMI emittente, oltre al piano aziendale, una dichiarazione, sottoscritta dal legale rappresentante, che attesti come la stessa: non abbia ricevuto finanziamenti superiori al predetto limite; non sia quotata; soddisfi almeno una delle condizioni fissate nella definizione di “PMI ammissibile” (articolo 1, comma 1, lett. c).

Nell’ipotesi investimento indiretto, i medesimi soggetti devono farsi rilasciare apposita dichiarazione dal gestore del fondo di venture capital circa il pieno soddisfacimento delle requisito patrimoniale relativo agli investimenti qualificati (70% dell’attivo in strumenti emessi da PMI ammissibili); a sua volta, tale ultimo soggetto ha l’obbligo di richiedere ai rappresentanti legali delle PMI, un’attestazione in merito alla loro natura di imprese agevolabili, ai sensi della richiamata definizione.

Normativa

Art. 1, commi da 211 a 215, legge 30 dicembre 2018, n. 145.

Art. 1, commi da 100 a 114, legge 11 dicembre 2016, n. 232.

D.M. 30 aprile 2019.

Prassi amministrativa

Agenzia delle Entrate, Circolare 26 febbraio 2018, n. 3.

Ministero dell’Economia e delle Finanze, Linee Guida 4 ottobre 2017.

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