CONTRIBUZIONE DOVUTA SULLE ASSENZE: in caso di assenza ingiustificata si sospende l’obbligazione contributiva?

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I contributi costituiscono delle somme di denaro, periodicamente versate, destinate al finanziamento delle prestazioni di natura previdenziale e assistenziale. Essi sono quantificati prendendo in esame una ricchezza definita “base imponibile” e calcolate per effetto dell’applicazione di un “aliquota” (ovvero una percentuale).

Da tempo si dibatte circa la distinzione tra il sistema previdenziale e quello assistenziale, più volte Dottrina e Giurisprudenza hanno inteso volerne chiarire la differenza.

Ad oggi entrambe si fondano sul concetto di “sicurezza sociale”, nato da un’idea di Lord William Beveridge del 1942, la quale prevedeva una tutela universalistica, includendo chiunque fosse cittadino, in ogni momento della vita in cui si presentasse un bisogno, sulla scorta del motto “dalla culla alla bara”. L’affermazione di previdenza e assistenza come principi facenti parte del nostro ordinamento, si trova all’interno dei primi due commi dell’art. 38 Cost., il quale recita: “1. Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all'assistenza sociale. 2. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”.

Il comma primo definisce l’assistenza sociale come l’insieme di misure e strumenti volti ad assicurare, a chi ne fosse sprovvisto, i mezzi necessari per vivere. L’affrancamento, secondo il nostro ordinamento, è raggiungibile mediante il lavoro: l’art. 1 Cost. lo definisce il fondamento della nostra Repubblica, l’art. 4 lo considera un diritto di ognuno, ma anche un dovere, per contribuire allo sviluppo sociale. È vero però che, il considerarlo come un diritto, non equivale ad affermare che un posto di lavoro sia garantito, di fatto, a chiunque: tale affermazione trova un decisivo riscontro nella riforma del monopolio pubblico nel collocamento, superando l’idea che “il lavoro non è una merce”, per effetto del D. Lgs. 469/1997 e D. Lgs. 276/2003. Dunque, nei confronti di coloro i quali deficitino dei mezzi necessari per sopravvivere, è giustificato l’intervento pubblico teso a conferirli loro (leggasi l’art. 38 comma 1 in combinato con l’art. 3 Cost.). Un esempio può essere l’assegno sociale, ovvero una misura assistenziale rivolta a chi abbia raggiunto i 67 anni di età e non abbia maturato i requisiti contributivi per l’accesso alle varie forme pensionistiche, oltre a presentare un reddito annuo non superiore a 6.542,51€ annui.

Per contro, la previdenza sociale, ai sensi dell’art. 38 comma 2, si rivolge ai lavoratori conferendo loro determinate tutele volte a sopperire un’eventuale mancanza o impossibilità, presente o futura, di lavorare, dovuta a cause non a loro imputabili.  Si tratta di tutele concernenti ipotesi quali, ad es.: impossibilità di rendere la prestazione per ragioni anagrafiche (ovvero la pensione), sostegno al reddito in caso di disoccupazione involontaria (attualmente è prevista la NASpI), impossibilità di rendere la prestazione per un’invalidità o per una sopravvenuta inidoneità dovuta ad un infortunio sul lavoro o malattia professionale.  Tale fenomeno ha origine nello stesso periodo storico in cui si può collocare la nascita della figura del lavoratore subordinato: come effetto della migrazione di massa dalle periferie ai centri città, periodo poi conosciuto come “Rivoluzione industriale”. Invero, il sorgere di una nuova figura sociale comporta l’affiancarsi ad esso di bisogni da risolvere del tutto nuovi. Il fenomeno dell’associazionismo comporta l’organizzazione dei lavoratori in gruppi, spesso accomunati dallo stesso settore di lavoro o dalle stesse mansioni svolte, al fine di tutelare i propri interessi: si tratta degli antenati delle associazioni sindacali. Tramite esse, i lavoratori intendevano far valere collettivamente le proprie necessità, controbilanciando l’eccessivo potere negoziale, direttivo, organizzativo dei datori di lavoro e, stante l’assenza di regolamentazioni, intesero dar vita alle prime mutue assicuratrici, presso cui ciascuno versava un contributo da accantonare e destinare al lavoratore che versasse in stato di bisogno, al fine di tutelarne l’esistenza, seppur gravata da una circostanza che non gli consentisse di lavorare. Dunque, ben si coglie il significato sotteso al termine previdenza, ovvero quello di prevedere, anticipare, risparmiare oculatamente.  Il sistema previdenziale di natura pubblica trova la sua prima regolamentazione grazie alle tutele disposte dallo Stato Sociale (“Wohlfahrtsstaat”) in via di formazione, come risultato delle politiche del noto cancelliere tedesco Otto von Bismarck. L’arrivo in Italia si verifica solo qualche anno più tardi: alle società di mutuo soccorso, si affiancano le prime tutele di natura statale, prevedendo un dovere di risparmio forzoso e di versamento contributivo, inizialmente, nel 1898, per i soli operai, volte al contrasto delle necessità derivanti da infortuni sul lavoro. Il sistema italiano c.d. di primo pilastro, nel tempo, ha subito varie modifiche: nel 1919 viene prevista la prima forma di tutela contro la disoccupazione involontaria, in epoca corporativa viene istituito l’IN(F)PS, nel 1943 si attesta il primo intervento in caso di malattia comune, con la legge sociale del 1969 si abbandona la forma di assicurazione a capitalizzazione in favore di un sistema redistributivo, oltre ad istituire la pensione di anzianità, nel 1978 viene istituito il sistema di sanità pubblica (SSN) e con la riforma Dini viene previsto il nuovo metodo di calcolo pensionistico, quello contributivo in luogo di quello retributivo, esteso su larga scala, successivamente, per effetto della riforma Fornero.

Inoltre, con il Codice Civile viene messo nero su bianco il principio c.d. di automaticità delle prestazioni, all’art. 2114 “Le prestazioni (previdenziali) sono dovute al prestatore di lavoro, anche quando l'imprenditore non ha versato regolarmente i contributi dovuti alle istituzioni di previdenza e di assistenza, salvo diverse disposizioni delle leggi speciali [o delle norme corporative]”. Tale principio viene recepito grazie alla già citata legge sociale 153/1969, la quale intese estenderlo a tutte le principali prestazioni previdenziali, dunque rendendole svincolate dall’effettivo versamento, che può avvenire anche successivamente, però entro il termine di prescrizione quinquennale come stabilito dall’art. 3, comma 9, della legge n. 335 del 1995, c.d. Riforma Dini.

Il tema della base imponibile, invece, è stato oggetto di varie discussioni e differenti visioni da parte degli operatori del diritto. La prima regolamentazione della grandezza economica da assumere come base di calcolo della contribuzione da versare si ha nel D.p.r. 797/1955, al cui art. 27 si scrive: “Agli effetti del calcolo del contributo, per retribuzione si intende tutto ciò che il lavoratore riceve, in denaro o in natura, direttamente dal datore di lavoro per compenso dell'opera prestata, al lordo di qualsiasi ritenuta” e il successivo art. 28 estende tale regola anche alle indennità corrisposte al lavoratore in caso di assenza. Chiunque, tra i lettori, abbia una minima dimestichezza con il mondo giuslavoristico, avrà già colto la notevole affinità esistente tra la norma sopra riportata e l’enunciato dell’art. 2094 del c.c., ovvero la retribuzione intesa come il fondamento del vincolo sinallagmatico, secondo l’idea che sia retribuzione la globalità di ciò che si percepisce come controprestazione dell’attività resa.

Successivamente, il legislatore è intervenuto novellando la precedente previsione normativa, lasciando intatta la cornice, ma intervenendo sul contenuto. Invero, all’art. 12 della L. n. 153/1969 viene stabilito che: “Per la determinazione della base imponibile per il calcolo dei contributi di previdenza e assistenza sociale, si considera retribuzione tutto ciò che il lavoratore riceve dal datore di lavoro in danaro o in natura, al lordo di qualsiasi ritenuta in dipendenza del rapporto di lavoro”. Tale norma, anche per effetto delle seguenti interpretazioni giurisprudenziali, ha sortito l’effetto di ampliare la base imponibile contributiva, poiché la precedente versione poteva prestarsi a distorsioni interpretative, se non addirittura paradossi (si pensi all’ipotesi interpretativa che, stante l’idea che la base imponibile coincidesse con quanto è percepito per la prestazione resa, portasse ad escludere gli emolumenti corrisposti in caso di assenza per ferie). Il risultato della citata modifica, cui si affiancano un notevole numero di pronunce giudiziali, ha portato al formarsi del concetto di “dipendenza causale”, ovvero la base imponibile viene a coincidere con quanto è erogato al lavoratore per il fatto che sussiste un rapporto di lavoro, considerando tutte le somme che in esso trovano la loro giustificazione.

Infine, la svolta decisiva si ottiene poiché, col tempo, si è iniziato ad interrogarsi circa le ragioni che portano a differenziare le discipline di calcolo delle basi imponibili a fini fiscali e contributivi. In effetti, entrambi i regimi godono di una simile procedura, ovverosia l’applicazione di un’aliquota su una base imponibile, e per tale ragione si sono via via affermate, con decisione sempre maggiore, idee tese all’uniformazione delle regole volte ad individuare entrambe le basi imponibili. Le predette idee trovarono concretezza grazie alla Legge delega 662/1996, recepita con il D.lgs. n. 314/1997, il cui art. 6 recita: “2. Per il calcolo dei contributi di previdenza e assistenza sociale si applicano le disposizioni contenute nell'articolo 48 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, salvo quanto specificato nei seguenti commi. 3. Le somme e i valori di cui al comma 1 dell'articolo 48 [poi divenuto il 51] del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, si intendono al lordo di qualsiasi contributo e trattenuta, ivi comprese quelle di cui al comma 2, lettera h), dello stesso articolo 48. 4. Sono esclusi dalla base imponibile: […]”. Dunque, per il tramite della citata opera di armonizzazione, si ottiene un’unica definizione di retribuzione imponibile, basata sul contenuto degli odierni artt. 49 e 51 TUIR, ovverosia si affermano anche in ambito previdenziale i concetti di derivazione (art. 49) e di onnicomprensività (art. 51), considerando le esclusioni tassativamente previste all’art. 6 D.lgs. 314/1997 comma 4 e ss. e art. 51 D.p.r. 917/1986 comma 2 e ss.. La sentenza più risolutiva sul tema concerneva le mance percepite dai dipendenti delle sale gioco (Cass. n. 6238/2006).

La base imponibile contributiva, si riduce in caso di assenze non retribuite?

Ci si è spesi in un riassunto circa l’evoluzione normativa subita dalla materia previdenziale per poter ben comprendere la complessità della tematica. Non solo la materia è ricca di produzione normativa e giurisprudenziale, bensì è necessario tenere in considerazione un ulteriore tassello: il minimale contributivo.   Alla lettera, l’art. 1 D.L. n. 338/1989 dispone che: “La retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi di previdenza e di assistenza sociale non può essere inferiore all'importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale, ovvero da accordi collettivi o contratti individuali, qualora ne derivi una retribuzione di importo superiore a quello previsto dal contratto collettivo”. Pertanto, nel qual caso la retribuzione imponibile risultasse inferiore all’importo minimo stabilito annualmente dall’INPS, la contribuzione dovuta sarà comunque calcolata su tale somma. La ragione di tale scelta si riscontra nella finalità riservata ai contributi versati: il finanziamento delle prestazioni previdenziali e assistenziali.

La questione, quindi, è assai ardua: è necessaria l’applicazione del minimale, nei casi di assenza non retribuita?

Cass. n. 15120/2019 è l’ultima delle pronunce che hanno inteso dare risoluzione a tale problematica. La S.C. ha stabilito che le assenze dal lavoro, non contrattualmente giustificate (in caso di libera scelta del datore di lavoro o accordo tra le parti), non esonerano il datore di lavoro dal pagamento dei premi assicurativi e dai contributi previdenziali, ritenendo così applicabile l’art. 1 D.L. 339/1989. In tal modo viene chiarito il concetto che, per realizzare gli scopi cui è volta la Previdenza sociale, è necessario considerare la retribuzione c.d. “contributiva” o “virtuale”, ossia al lordo di ciò che spetterebbe nel caso in cui le assenze non si verificassero.

Riportando un passaggio decisamente rilevante: “contrariamente a quanto sostenuto dalla parte ricorrente, sia con riferimento all’ammontare della retribuzione c.d. contributiva, sia con riferimento all’orario di lavoro da prendere a parametro che deve essere l’orario di lavoro normale stabilito dalla contrattazione collettiva o dal contratto individuale se superiore. (…) E difatti, è evidente che se ai lavoratori vengono retribuite meno ore di quelle previste dal normale orario di lavoro e su tale retribuzione viene calcolata la contribuzione, non vi può essere il rispetto del minimo contributivo nei termini sopra rappresentati”. È, così, definito il concetto secondo cui l’ammontare della retribuzione è slegato dal rapporto contributivo, ben potendo l'obbligo contributivo essere proporzionato sulla base di un importo superiore a quanto effettivamente corrisposto al lavoratore.

Ma vi è di più.

L’unico settore merceologico in cui si ravvisa l’esistenza di una disciplina relativa alla contribuzione dovuta per i periodi di assenza, è quello Edile. L’art. 29 D.L. 244/1995, convertito in L. n. 341/1995 determina i casi di assenza in cui è escluso l’obbligo contributivo: “I datori di lavoro esercenti attività edile, anche se in economia, operanti nel territorio nazionale (…), sono tenuti ad assolvere la contribuzione previdenziale ed assistenziale su di una retribuzione commisurata ad un numero di ore settimanali non inferiore all'orario di lavoro normale stabilito dai contratti collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale e dai relativi contratti integrativi territoriali di attuazione, con esclusione delle assenze per malattia, infortuni, scioperi, sospensione o riduzione dell'attività lavorativa, con intervento della cassa integrazione guadagni, di altri eventi indennizzati e degli eventi per i quali il trattamento economico è assolto mediante accantonamento presso le casse edili”. È oltremodo evidente il connotato antielusivo di tale disposizione, talché la stessa Corte ha inteso estenderne l’efficacia: “«[…] anche nei settori diversi da quello edile, la contribuzione è dunque dovuta nei casi di assenza del lavoratore o di sospensione concordata della prestazione stessa che costituiscano il risultato di un accordo tra le parti derivante da una libera scelta del datore di lavoro e non da ipotesi previste dalla legge e dal contratto collettivo (quali malattia, maternità, infortunio, aspettativa, permessi, cassa integrazione)”. Invero, l’assenza di previsioni normative riferite ad altri settori non determina la possibilità di sospendere l’obbligazione contributiva per effetto di un accordo tra le parti e la riduzione volontaria dell’orario non incide sul dovere di versamento contributivo (Cass. n. 21700/2009; Cass. n. 9805/2011). Difatti, il calcolo dell’ammontare contributivo non può effettuarsi sulla retribuzione effettiva, perché renderebbe le parti libere di decidere il quantum della contribuzione da versare; inoltre è onere del datore di lavoro dover provare che la sospensione verificata rientri tra le ipotesi eccezionalmente ritenute lecite.

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