Dell’asserita incapacità dei collaboratori e dipendenti del professionista

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Uno degli aspetti che più mi rattrista è quando sento un manager che parla male del suo team.

Non tanto quando sparla di una persona specifica, ma di tutta la squadra. Magari non puntualizzando carenze ben definite ma colpendo indiscriminatamente le persone. Con argomenti non ad rem ma ad hominem, come avrebbero detto i retori latini.

Questo comportamento deplorevole e riprovevole sul piano umano e assolutamente controproducente sul piano manageriale fa ancora più specie quando avviene all’interno di uno studio professionale. Eppure di tanto in tanto mi ritrovo con il titolare o il socio che si sfoga perché le cose non vanno come vorrebbe e se la prende con dipendenti e collaboratori.

In certi casi la critica è che non sono capaci di fare il “salto di qualità”. “Non mi seguono”. Non sono abbastanza smart. Piccolo particolare, quando li hai assunti ti bastava fossero dei diligenti contabili. Oggi invece, oltre ad essere dei bravi contabili devono magicamente diventare dei super tecnici digitali, dei fiscalisti, dei manager e degli ottimi commerciali. Lavoro triplicato, responsabilità sovrumane, stipendio invariato. E per premio il tuo capo ti sparla alle spalle o peggio ancora te lo dice in faccia che sei un incapace, che non vali una cicca. Che non hai fatto abbastanza. Ultimo complimento erogato: a denti stretti, nel 2008.

Mi sembra ancora di sentirlo, il Professionista Imbruttito che pontifica. “Possibile che non fanno le cose. Eppure glielo ho chiesto. Gliel’ho detto mille volte. Non le fanno come dovrebbero. Eppure li ho rimproverati a dovere. E tutte le volte, mi tocca fargli le cose dietro”. Strano che un pesce non sappia arrampicare a semplice richiesta. Come se fare le cose dietro alle persone sia per loro motivante. Come se fare lo shampoo alle persone le aiutasse a fare meglio la volta successiva.

Di certe cose il professionista proprio non si capacita: “Non capisco perché non rimangono in studio tutti i sabati, tutte le domeniche, tutte le notti come faccio io…” E se fosse perché hanno un ruolo e un contratto diverso dal tuo?

In altri casi la delusione è totale, e la sentenza è definitiva e senza appello: “sono un branco di scansafatiche, sono dei decerebrati, dei lobotomizzati.  Li lascierei tutti a casa, ma non ci sono più talenti né vocazioni”.

In alcuni contesti si possono trovare almeno delle parziali giustificazioni al capo che non ha fiducia nella sua squadra.

Ad esempio, quando un manager pubblico entra in servizio deve gestire le persone che trova. Talvolta, non ha la minima possibilità di scegliere i propri collaboratori. Poiché in Italia non si possono licenziare nemmeno gli assassini, e i concorsi selezionano le persone per titoli ed esami e non in base alle soft skills, deve fare con quello che c’è. Deve cercare di motivare pur sapendo che il suo gruppo di lavoro molto difficilmente diventerà un team. Per raggiungere i suoi obiettivi dovrà gestire situazioni davvero complicate. Dovrà neutralizzare le risorse che lo boicottano perché politicamente orientate, far lavorare un minimo anche i fancazzisti più incalliti, gestire assenteismi e buchi nella pianta organica e così via, in un vortice di spericolati equilibri. E, pur non potendo scegliere le risorse, anche il manager pubblico può influenzarne in modo significativo il comportamento attraverso coinvolgimento, persuasione, condivisione di obiettivi e feedback. A ben vedere, nemmeno un manager privato o un imprenditore non può generalmente rivoluzionare la propria squadra in tempi brevi e deve almeno in parte accontentarsi di quello che ha.

Ma quando è invece un titolare di studio a dirmi che non ha fiducia nei suoi dipendenti e collaboratori io dico che dovrebbe innanzitutto guardarsi allo specchio. Il dominus.

È lui che li ha scelti, è lui che li ha cresciuti e li ha fatti diventare così come sono.

E se non sono come li vorrebbe, è troppo comodo attribuire agli altri la responsabilità dei propri insuccessi, il professionista ha sempre il locus of control esterno.

Il primo passo per il professionista è quello di prendere coscienza che la qualità del team dipende da lui. Quando una squadra cambia allenatore inizia a performare in modo totalmente diverso, senza cambiare nemmeno un giocatore.

I professionisti non sbagliano tanto nello scegliere i collaboratori quanto nel crescerli. Non sanno dirigerli, non vogliono dirigerli, non hanno tempo per dirigerli. Dirigerli è increscioso, spesso tocca litigare e poi non sempre porta a risultati tangibili. Soprattutto se non sai come si fa.

Il professionista è convinto che per far fare qualcosa ad una persona basti dirglielo. Per un professionista lavorare direttamente su una pratica è produttivo mentre far lavorare gli altri è una attività improduttiva, una perdita di tempo. Agli occhi del professionista il manager, ogni manager è un mangiapane a ufo e per questo fare il manager non richiede alcuna competenza o professionalità specifica, né alcun investimento di tempo. In altre parole, per un professionista, chiunque può fare il manager, basta saper stare seduti su una scrivania e darsi un tono nelle riunioni. Basta appropriarsi dei risultati positivi e trovare come scaricare la colpa di quelli eventualmente non raggiunti. Nulla di più sbagliato: nella mente del professionista c’è completa ignoranza rispetto ai tempi e ai modi del cambiamento organizzativo, e a come lottare contro l’abitudine e la paura, i grandi nemici dei cambiamenti.

Le persone devono essere motivate, coinvolte, convinte a fare ciò che chiediamo loro. In altre parole le persone hanno bisogno di essere guidate da un leader. E la leadership si impara esattamente come si impara a fare i bilanci, le buste paga e le comparse di risposta. E nessuno nasce sapendo fare queste cose, anche se a qualcuno fa comodo far finta di essersene dimenticato.

Se le persone sono anarchiche è perché qualcuno anni fa gli ha detto di arrangiarsi. Se le persone si comportano da sciocche è perché qualcuno gli ha finora risolto tutti i problemi. Se le persone non cambiano è perché noi gli abbiamo fatto incrostare le rotelle, da troppo tempo le abbiamo lasciate a fare le stesse cose nello stesso modo.

Aspettative e indicazioni non chiare, implicite, ondivaghe. Assenza di feedback o colpevolizzazione senza alcun apprendimento. Niente lodi, rammolliscono. Assegnazioni e revocazioni di compiti senza spiegare come si fa.

Bisognerebbe impedire ad un professionista di avere dei collaboratori se prima non ha fatto la patente da manager e ha dimostrato di saper guidare.

Avere fiducia dei collaboratori è indispensabile. Anche e soprattutto dei più deboli. Occorre sospendere il giudizio, pensare che ce la possono fare.

Se la fiducia nei collaboratori non c’è bisogna inventarsela. Altrimenti non è possibile realizzare alcuna delega e quindi alcun progetto di sviluppo.

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