Fatemi gestire qualunque cosa, ma non i collaboratori

Download PDF

Un vero professionista, se è un cavallo di razza, se è davvero un professional worker fino al midollo, è disposto/a a fare qualunque altra cosa pur di non dover gestire le risorse umane dello studio.

Ci sono professionisti, non sto scherzando, che hanno regalato lo studio ad altri colleghi pur di non doversi più occupare delle persone. Abbiamo soci che abdicano totalmente la gestione dello studio ad un altro socio o a qualche collaboratore. Gestire le “signorine” (o i “signorini”) è considerato uno dei lavori più usuranti ed indesiderabili. (A mio avviso a torto.)

Laura Empson, nota docente universitaria e consulente esperta mondiale di studi professionali parla dei professionisti come di “Reluctant Leaders”. la maggior parte dei professionisti accetta di gestire altre persone solo obtorto collo. E’ lo scotto da pagare quando sei troppo bravo.

Tale è l’avversione al management dei professionisti italiani che in ambito odontoiatrico già spopolano le strutture ambulatoriali “full service” a cui il dentista lascia una parte significativa del fatturato ma in cambio trova tutto pronto. Così si realizza il massimo desiderio: chiudo lo studio e finalmente torno a fare l’odontoiatra. Il vero professionista si caratterizza quindi per l’amore assoluto per il gesto tecnico (anche se dovesse risultare a breve sostituito dalla tecnologia) e indolenza assoluta per tutto ciò che lo circonda, che logicamente lo precede, lo affianca o lo segue.

Per lo stesso motivo, molti professionisti rinunciano a ghiotte occasioni di lavoro, nelle aree contigue alla loro professione. Privacy? Adeguati assetti? Controllo di gestione? Data science? Io sono un commercialista, faccio bilanci e dichiarativi, delle altre cose si occupino gli altri. E quando tra un paio d’anni bilanci e dichiarativi li faranno i robot? Come tanti maniscalchi all’avvento dell’automobile. Con la stessa logica dell’”io speriamo me la cavo” anche molti servizi di compliance come l’antiriciclaggio o amministrativi collaterali come il deposito delle formalità al Registro Imprese vengono sempre più spesso esternalizzati.

In questo modo anche le attività più strategiche come la consulenza direzionale o quelle più critiche come l’analisi dei rischi del cliente vengono date via, trattenendo invece proprio quelle che come la contabilità invece non portano redditività ma solo rogne. Queste sì andrebbero esternalizzate, ma un Commercialista o Consulente del Lavoro si farebbe ammazzare piuttosto di dar fuori un rigo di contabilità o un singolo cedolino. Come se averli in casa significasse averne un qualsivoglia controllo.

Eppure la maggior parte dei professionisti saprebbe benissimo come fare a gestire le persone, perché conoscono perfettamente il tipo di comunicazione che funziona alla perfezione. Basta trattare il cliente interno con le stesse accortezze e lo stesso stile di comunicazione con cui si tratta il cliente esterno. Invece di regola il cliente interno viene sempre dopo.

Per molti professionisti i collaboratori e i dipendenti sono quindi un male necessario, lo scotto da pagare per l’eccessivo successo che purtroppo ci impedisce di continuare a fare tutto da soli. Per molti era meglio quando si stava peggio. Più di qualcuno preferirebbe tornare a fare i “Fantastici Quattro” piuttosto che essere la “Sporca Dozzina”.  Per cui, l’imperativo categorico diventa di limitare al minimo le interazioni e renderle il meno sgradevoli possibile.

Trascurare dipendenti e collaboratori è quindi quasi un must. Piuttosto che litigare (data la diffusa incapacità di dare feedback di miglioramento in modo costruttivo), molto meglio tollerare inefficacie ed inefficienze o addirittura far da se. E così abbiamo figure di professionisti spugna ai quali tutto ritorna sulla scrivania e i cui collaboratori diventano sempre più ebeti e più inutili. Oltre che infelici e sfaccendati. Il professionista antimanager è quindi un generatore involontario di fancazzisti e di anarchici.

Il professionista medio preferisce le pratiche alle persone perché gli assicurano un tasso di successo quasi al 100% mentre l’interazione con gli altri esseri umani ha tassi di successo di molto inferiori. Soprattutto, il professionista medio crede di poter fare il manager in tanto in quanto sa fare bene il suo lavoro. In altre parole crede di poter allenare una squadra solo perché sa giocare. Crede di poter insegnare perché sa fare bene una cosa. Sappiamo tutti che non è così. Anzi, fare il manager significa far lavorare gli altri, pratica che molti professionisti trovano addirittura immorale. Chi non produce in prima persona dentro a uno studio professionale è subito etichettato come inutile, mangiapane a sbafo. Magari è la persona che con le relazioni che intesse tiene insieme lo studio ma poco importa, se non fattura abbastanza non va bene.

E così il professionista leader per caso o per necessità tende a fare l’Ulisse, a preferire le pratiche esterne. Si sa: occhio non vede, cuore non duole. E quando entra in studio perché deve, si chiude subito in stanza. Ressa di collaboratori e bigliettini numerati fuori dalla porta come in salumeria all’ora di punta.

L’importante sembra essere rinviare, minimizzare, insabbiare. Dare soluzioni semplici a problemi complessi. Non dedicare tempo all’ascolto perché non abbiamo tempo. Non dare importanza ai segnali deboli che indicano che i collaboratori hanno problemi, che magari porteranno a demotivazione, financo alle dimissioni. Delle quali poi riusciremo perfino a sorprenderci, cadendo clamorosamente dal pero.

Una adeguata formazione manageriale rende invece possibile al professionista l’esercizio piacevole della delega con riduzione del sovraccarico, aumento della soddisfazione personale e della redditività dello studio, crescita più rapida dei collaboratori.

Download PDF

Nessun commento ancora


Lascia un commento

E' necessario autenticarsi per pubblicare un commento