LA CONSAPEVOLEZZA DELL’ILLECITO FA VINCERE IL CONCORSO, MA NELLA FRODE

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Ai sensi dell’art. 10-quater comma 2 del DLgs. 74/2000, è punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque non versi le somme dovute utilizzando in compensazione, ai sensi dell’art. 17 del DLgs. 241/1997, crediti inesistenti per un importo annuo superiore ai cinquantamila euro. Per tale reato tributario è responsabile anche il consulente fiscale, a titolo di concorso, quando egli sia meramente consapevole e, ovviamente, ancor più se sia l’ispiratore della frode del cliente. Peraltro, quando esso è il promoter del meccanismo fraudolento risulta configurabile anche l’aggravante prevista dall’art. 13-bis comma 3 del DLgs. 74/2000, che aumenta le pene della metà se il reato è commesso nell’esercizio dell’attività di consulenza fiscale. La Cassazione, con la recentissima sentenza n. 1999 del 18 gennaio 2018, è stata perentoria. Nel caso affrontato dagli Ermellini, era stato contestato ad alcuni clienti di uno studio la compensazione di crediti fraudolenti mediante il c.d. “accollo fiscale”, ex art. 10-quater comma 2 del DLgs. 74/2000. Più nello specifico, alcune società, clienti del consulente, si accollavano il debito tributario di terzi ed effettuavano attraverso la trasmissione telematica dei modelli F24, la compensazione con crediti fittizi ed il consulente per talune di queste società apponeva il visto di conformità. Nel reagire all’incriminazione per un reato a cui si dichiarava estraneo, il consulente aveva eccepito, tra le altre cose,  anche di non aver ritratto alcun profitto dalle condotte del cliente, ma di aver percepito solo un ordinario compenso professionale per il quale aveva emesso regolare fattura.

Per la Cassazione, invece, può ritenersi responsabile a titolo di concorso nel crimine il consulente fiscale che abbia coscienza e consapevolezza del fatto il suo cliente stia ponendo in essere una frode fiscale ed a nulla vale opporre che solo lo stesso abbia beneficiato dell’operazione fiscalmente illecita. La condotta dolosa da parte del consulente consiste, infatti, già solo nella mera coscienza e consapevolezza del reato del cliente.

Peraltro, dalla predetta configurazione penale della questione sono derivati gravi effetti anche sulla posizione patrimoniale del consulente, poiché il sequestro preventivo per equivalente, in vista della successiva confisca, pur disposto entro i limiti quantitativi del profitto, è stato rivolto indifferentemente nei confronti di tutti gli autori della condotta criminosa, non essendo esso ricollegato al profitto personale di ciascuno dei correi, ma alla corresponsabilità di tutti i partecipanti alla commissione dell’illecito.

Quello della responsabilità penale dei professionisti è un tema ampiamente dibattuto oltre che a livello dottrinario anche a livello giurisprudenziale, ma ormai negli ultimi anni sono state numerosissime le sentenze deflagranti sul punto. Ad esempio, la Corte di Cassazione con la sentenza n.17418 del 2016 aveva chiaramente già affermato “la configurabilità del concorso nel reato di frode fiscale di coloro che – pur essendo estranei e non rivestendo cariche nella società cui si riferisce l’emissione di fatture per operazioni inesistenti – abbiano, in qualsivoglia modo, partecipato a creare il meccanismo fraudolento che ha consentito alle utilizzatrici […] di potersi procurare fatture passive da inserire in dichiarazione per abbattere l’imponibile societario […]”. Principio ribadito dalla Suprema Corte che già con la sentenza n. 39873 del 2013 aveva sancito la responsabilità di un consulente per aver redatto la dichiarazione fiscale del cliente sulla base di fatture contabilizzate e poi ritenute false.

Secondo gli Ermellini, anche se è il cliente a giovare del beneficio fiscale indebito, il concorso del professionista può concretizzarsi sia in un apporto materiale (e dunque in un comportamento concreto), sia in un apporto morale, ossia in un comportamento teso quanto meno ad agevolare l’illecito del contribuente.

Si faccia attenzione, però, ad uno specifico punto: in questi casi è comunque necessaria una condotta dolosa da parte del consulente, il quale deve essere consapevole e cosciente del fatto che sta ponendo in essere una frode fiscale. In altri termini, il professionista non potrà essere chiamato a rispondere in tutti quei casi in cui per via di sua imperizia o negligenza vi siano stati errori ed omissioni. Ad esempio, la sentenza n.18845/2016 ha assolto da ogni responsabilità per il reato un commercialista che aveva dimenticato di presentare la dichiarazione per conto del proprio cliente.

Dal panorama giurisprudenziale che si è affermato in questa materia si è affermato un principio costante: per i giudici un professionista è punibile quando mette a disposizione la sua professione non solo per frodare il fisco (e ci mancherebbe altro), ma anche quando egli è “consapevole” che ciò avvenga. Il problema, tuttavia, consiste nel fatto che spesso questa consapevolezza viene desunta anche dalla mera circostanza di aver fornito al cliente il supporto tecnico-operativo dello studio e non sempre il professionista, che non ha i poteri istruttori della Guardia di Finanza, ha la possibilità di indagare sulla correttezza dei comportamenti e sulla veridicità dei documenti del cliente.

Tuttavia, i contenuti di tali sentenze vanno interpretati e tenuti bene a mente, perché mantenere rapporti con clienti in odore di frode rischia di mettere a repentaglio i sacrifici di una vita di lavoro. Poiché, è bene ribadirlo, quando scatta il concorso nel reato, l'imputazione dell'intera azione delittuosa consente il sequestro preventivo per equivalente indifferentemente nei confronti di tutti gli autori della condotta criminosa ed a prescindere dall'arricchimento personale di ciascuno.

Infine, appare appena il caso di precisare che il professionista che può essere chiamato a rispondere in concorso non è solo chi si trova a svolgere funzioni di gestione e consulenza tributaria “abilitata” (commercialisti, consulenti del lavoro, avvocati, etc.). Secondo la costante giurisprudenza, infatti, qualsiasi tributarista o prestatore di servizi contabili e fiscali può concorrere (ai sensi dell’art. 110 c.p.) negli eventuali reati commessi dai clienti ai quali si sia fornita assistenza tributaria, perché, senz'altro nel commettere reati, tutti i professionisti sono uguali rispetto alla legge, prevalendo una nozione di “professionista”  intesa in senso sostanziale.

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