La libertà sindacale, i contratti collettivi non rappresentativi e l’ultima Circolare dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (n. 3/2018)

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L’ispettorato Nazionale del Lavoro continua la propria attività in merito alle Circolari esplicative su materie di natura giuslavoristica.

L’ultimo tema trattato, come un mobile d’antiquariato, può definirsi antico e delicato oltre che forse prezioso, poiché parla di Contrattazione collettiva e relativa obbligatorietà (da un lato) e di necessaria “rappresentatività comparativa a livello nazionale”.

Quando si affronta questo delicato tema, corre l’obbligo ricordare che il sistema di contrattazione collettiva che concorre a comporre il vigente ordinamento di diritto del lavoro è regolato, in ragione della perdurante mancata applicazione dell’art. 39 della Costituzione, dalle singole disposizioni legislative sulle obbligazioni.

L’art. 1322 c.c. – “autonomia contrattuale” – consente (o forse è meglio dire consentirebbe, come vedremo di seguito) ai datori di lavoro, alle associazioni datoriali ed alle rappresentanze dei lavoratori la stipulazione di contratti “che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico”. Secondo questa disposizione civilistica, i contratti collettivi  si definiscono “di diritto comune” ed in quanto tali hanno natura negoziale e privatistica e “si applicano esclusivamente ai rapporti individuali intercorrenti tra soggetti che siano entrambi iscritti alle associazioni stipulanti, ovvero che, in mancanza di tale condizione, abbiano fatto espressa adesione ai patti collettivi e li abbiano implicitamente recepiti attraverso un comportamento concludente, desumibile da una costante e prolungata applicazione delle relative clausole ai singoli rapporti” (Cassazione Civile, sezione lavoro, 08.05.2009, n. 10632).

Secondo questo principio, quindi, il datore di lavoro diventa obbligato all’applicazione del contratto collettivo quando è iscritto alle associazioni stipulanti o quando lo abbia implicitamente applicato attraverso comportamenti concludenti. In mancanza di queste condizioni, non esistono (o esisterebbero) obblighi di applicazione del CCNL, tantomeno di applicare il CCNL in funzione alla categoria professionale di appartenenza.

Nonostante ciò, Il datore di lavoro deve fare i “conti” con un’altra norma di natura Costituzionale: l’art. 36, e tutta la giurisprudenza che si è formata proprio nel rispetto del citato articolo che definisce per “Retribuzione” quella somma “deve essere proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato, nonché in grado di assicurare al lavoratore e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.

Come fare i conti allora con la retribuzione “minima” prevista dal precetto Costituzionale?  Semplice: con il contratto Collettivo nazionale del Lavoro della categoria di riferimento rispetto all’attività esercitata dal datore di lavoro. (in questo senso numerosissima giurisprudenza, di cui si cita Cassazione Civile, sezione lavoro, 13.07.2009, n. 16340,  Cass. 8 gennaio 2002, n. 132; Cass. 10 agosto 2001, n. 11027; Cass. 23 marzo 1989, n. 1486; Cass. 10 febbraio 1989 e criterio fissato anche dall’art. 2070 cc).

Da questo precetto, si è definito il principio secondo il quale il “contratto collettivo è obbligatorio e vincolante per tutti per ciò che attiene alla parte economica, mentre è vincolante solo per gli aderenti alle associazioni sottoscrivente per la parte “obbligatoria””.

In tutto questo, ovviamente, non dimentichiamo la necessità che gli stessi CCNL siano stati ratificati dalle Organizzazioni Sindacali comparativamente più rappresentative, senza che tuttavia operino le altre parti economiche, ovvero quelle diverse dai diritti retributivi (Cassazione n. 212, 5.10.2010 e Cass. 12 agosto 1986, n. 5034). Su quest’ultimo tema, in particolare, si  riferisce la recente Circolare dell’Ispettorato Nazionale.

Pertanto, la tanto “proclamata” libertà sindacale prevista dall’art. 39 della nostra Costituzione è stata sempre minata, per ragioni peraltro condivisibili da parte di chi scrive, dall’altrettanta necessità di rispettare una retribuzione equa e sufficiente secondo un altro principio Costituzionale dell’art. 36.

Tuttavia, come si diceva nelle premesse, il tema pur così vecchio è ancora estremamente attuale, e la Circolare n. 3 del 2018 dell’Ispettorato Nazionale del lavoro ritorna a tracciarne le linee di confine.

Nello specifico, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro riferisce di aver ricevuto segnalazioni che evidenziano alcune problematiche legate alla mancata applicazione dei contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Tale circostanza, pur in presenza di un principio di “libertà sindacale”, non è indifferente per il nostro ordinamento.

L’ispettorato, richiamando che tali temi erano già stati affrontati dal Ministero del lavoro, con nota prot. n. 10599 del 24 maggio 2016, ricorda  che l’ordinamento riserva l’applicazione di determinate discipline subordinatamente alla sottoscrizione o applicazione di contratti collettivi dotati del requisito della maggiore rappresentatività in termini comparativi.

Infatti:

  • l’art. 8 del D.L. n. 138/2011 in materia contratti di prossimità, si esclude a contratti sottoscritti da soggetti non “abilitati” di poter produrre effetti derogatori,“alle disposizioni di legge (…) ed alle relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro”;
  • il famoso (e temuto) art. 1, comma 1175, L. n. 296/2006 (DURC INTERNO) subordina il godimento di “benefici normativi e contributivi” all’applicazione di contratti collettivi sottoscritti da organizzazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale;
  • l’art. 1 c. 1 del D.L. 338/1989 dispone che il contratto collettivo sottoscritto dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative a livello nazionale rappresenta il parametro ai fini del calcolo della contribuzione dovuta, indipendentemente dal CCNL applicato ai fini retributivi;
  • l’art. 51 del D.Lgs. n. 81/2015 stabilisce che “salvo diversa previsione, ai fini del presente decreto, per contratti collettivi si intendono i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria”. Quindi, ogni volta in cui nello stesso Decreto si rimette alla “contrattazione collettiva” il compito di integrare la disciplina delle tipologie contrattuali, gli interventi di contratti privi del requisito della maggiore rappresentatività in termini comparativi non hanno alcuna efficacia.

 

Alla luce di tutto queste premesse e considerazioni, l’Ispettorato Nazionale invita i vari uffici territoriali ad attivare specifiche azioni di vigilanza rappresentando alla Direzione Centrale gli esiti degli interventi.

… altro che libertà sindacale!

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