Magazzino obsoleto? Occorre provarlo ora e non dopo la fine dell’anno  

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Sono oramai croniche le divergenze di vedute tra contribuenti e amministrazione finanziaria in sede di controllo delle svalutazioni di magazzino per merci o prodotti obsoleti. In sede di verifica in azienda, l’Agenzia delle entrate o la G.d.F. tendono a disconoscere le svalutazioni delle rimanenze di magazzino derivanti dall’andamento del mercato, eccependo la mancanza o l’insufficienza della prova documentale circa l’effettivo deprezzamento dei beni.

Le proposte normative mai attuate

Si tratta di un fenomeno largamente diffuso e consolidato al punto che in passato le associazioni di categoria del settore dell’abbigliamento o di talune tipologie di arredi hanno chiesto, senza ottenerla, l’emanazione di una specifica disposizione che consentisse di ridurre, con riconoscimento fiscale, il valore dei beni in giacenza con quote forfetarie a seconda degli anni in cui i beni fossero stati prodotti, similmente a quello che è da sempre previsto per il settore librario; ciò al fine di evitare contestazioni in sede di verifica. Venne a suo tempo anche presentata la proposta di legge n. 214, recante la “Modifica all’articolo 92 del Tuir in materia di valutazione delle rimanenze nel settore tessile, dell’abbigliamento e calzaturiero giunta alla Camera dei Deputati il 29 aprile 2008. Analogo disegno di legge (n. 3198), peraltro, era stato presentato il 10 novembre 2004 al Senato da opposto schieramento.

Una proposta bipartisan, dunque.

Senonché nulla è cambiato sul punto e la problematica resta del tutto attuale.

Come si valutano le rimanenze di beni

Le rimanenze, ai sensi dell’articolo 2426, comma 1, n. 9, del codice civile, devono essere iscritte al costo di acquisto o di produzione, ovvero al valore di realizzazione desumibile dall’andamento del mercato, se questo è minore. L’OIC 13, stabilisce che il valore netto di realizzo non possa basarsi su fluttuazioni effimere di prezzi, ma sugli elementi più attendibili atti a individuare la situazione di esitabilità del prodotto. In fase di aggiornamento del principio sono state peraltro eliminate le considerazioni relative all’andamento del mercato nel periodo tra la data di chiusura dell’esercizio e la data di predisposizione del bilancio al fine di determinare il valore presumibile di realizzo in quanto il 24 tema è ora trattato in via generale nell’OIC 29.

Quest’ultimo oggi prevede che tra fatti successivi alla chiusura dell’esercizio che devono essere recepiti nei valori di bilancio vi sono quelli da cui emerga che talune attività già alla data di bilancio avevano subìto riduzioni durevoli di valore o riduzioni del valore di mercato rispetto al costo (a seconda delle fattispecie); per esempio la vendita di prodotti giacenti a magazzino a fine anno a prezzi inferiori rispetto al costo, che fornisce l’indicazione di un minor valore di realizzo alla data di bilancio;

Dunque, la data di chiusura dell’esercizio è solo un punto di riferimento, posto che vanno considerati l’andamento dei prezzi e tutte quelle altre condizioni, anche nel periodo che intercorre tra la data di chiusura del bilancio e quella della sua predisposizione, normalmente entro il mese di marzo, che hanno effetto sulla determinazione di un prezzo realistico. D’altra parte se i prezzi di vendita hanno avuto un andamento con minime oscillazioni nel corso dell’esercizio e alla chiusura dello stesso subiscono una temporanea riduzione per ritornare ai precedenti valori normali nel periodo immediatamente successivo alla chiusura dell’esercizio, la svalutazione al minor valore alla chiusura dell’esercizio non va fatta.

La norma e la verifica fiscale

L’articolo 92, comma 5 del Tuir dispone che “Se in un esercizio il valore unitario medio dei beni, determinato a norma dei commi 2, 3 e 4, è superiore al valore normale medio di essi nell’ultimo mese dell’esercizio, il valore minimo di cui al comma 1, è determinato moltiplicando l’intera quantità dei beni, indipendentemente dall’esercizio di formazione, per il valore normale.”.

Ebbene, in sede di verifica da parte degli uffici dell’amministrazione finanziaria, appellandosi al tenore lettera della norma, viene puntualmente disconosciuta la svalutazione operata in bilancio ed acquisita ai fini fiscali, eccependo che non si ha idonea documentazione per provare che il valore di mercato del mese di dicembre (ultimo mese dell’esercizio) sia quello utilizzato per valutare il magazzino. Va detto che nel settore del commercio al dettaglio la vendita è comprovata dallo scontrino fiscale (oggi “documento commerciale di vendita”) dove non compare con precisione il tipo di capo venduto, mentre nel settore della produzione o della vendita all’ingrosso, ove le cessioni sono documentate da fattura, spesso le vendite sono effettuate a stock e non necessariamente vengono fatte a dicembre, ben potendo essere effettuare ad esempio a novembre o a gennaio dell’anno successivo.

Va altresì sottolineato che l’obsolescenza del magazzino di taluni settori (soprattutto quelli soggetti al fattore moda) è ben (ri)conosciuto dall’AF: gli studi di settore fino a ieri hanno richiesto l’indicazione della percentuale di vendite a stock e la stratificazione per anno della composizione delle rimanenze di magazzino. Elementi che prendono spunto dalla Circolare n. 110/F del 21 maggio 1993 e dalla Circolare n. 121/E dell’8 giugno 2000. Anche gli ISA seppure con risultati non ben individuati prevede l’indicatore di “Decumulo delle scorte” che fornisce una misura dello smobilizzo delle giacenze di magazzino nel corso dell’anno.

La ripresa fiscale

Il rilievo che viene normalmente mosso dagli organi verificatori è la mancanza di prova circa l’effettivo valore di mercato che in base alla norma deve essere riferito all’ultimo mese dell’esercizio, ossia, nella generalità dei casi al mese di dicembre.

Come noto, nel settore delle vendite al dettaglio il mese di dicembre coincide con i regali di Natale e, dunque, i capi obsoleti non vengono certamente esposti per la vendita, mentre per le aziende di produzione del settore abbigliamento tale mese coincide con l’ultimazione delle vendite della collezione autunno-inverno e con l’inizio delle vendite della collezione primavera-estate, talché il problema della vendita dei capi di abbigliamento fuori moda in detto mese non è certamente la priorità dell’imprenditore.

Le vendite di capi obsoleti, spesso a stock, avviene in mesi precedenti o immediatamente successivi al mese di dicembre. Ebbene, l’interpretazione letterale della norma pedissequamente applicata, in questi casi vanifica completamente la ratio della disposizione. È del tutto illogico disconoscere come riferimento utile per la valorizzazione del magazzino il prezzo di vendita di una rilevante cessione a stock degli ultimi giorni di novembre o dei primi giorni di gennaio. Senza considerare che in taluni casi i prodotti in rimanenza (soprattutto tessuto e accessori) vengono addirittura conferiti a prezzo zero agli smaltitori. Ciò detto, è evidente che l’accertamento di maggior valore consente di portare a casa da parte dell’Ufficio solo la sanzione e gli interessi poiché la maggiore imposta accertata deve poi essere restituita al contribuente posto che, ai sensi dell’art. 110 del Tuir, le maggiori rimanenze finali di magazzino di un esercizio divengono maggiori esistenze iniziali nell’esercizio successivo.

Sarebbe cosa buona e giusta allora che la norma fiscale si adeguasse al principio contabile che richiede una valutazione del magazzino basata sulla sostanza definita in conformità al valore di periodo. È bene al riguardo ricordare che nella valutazione delle rimanenze di bilancio non si applica il principio della derivazione rafforzata (contabilità=fisco) poiché l’articolo 83 del Tuir dispone “valgono, anche in deroga alle disposizioni dei successivi articoli della presente sezione, i criteri di qualificazione, imputazione temporale e classificazione in bilancio previsti dai rispettivi principi contabili…”, e non si estende alle valutazioni.  Nel frattempo, concentrale le vendite che comprovano il minor valore della merce nel mese di dicembre.

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