Nessuno mi può giudicare

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Prosegue la nostra carrellata di atteggiamenti anacronistici ed autolesionistici dei professionisti, che richiedono un rapido cambio di mentalità. Oggi ci concentriamo sull’orgoglio. I tempi che corrono sono sicuramente tempi di grandi cambiamenti. Viviamo un’epoca in cui anche la velocità stessa del cambiamento è cresciuta in modo esponenziale.

Che si tratti di diritto, di economia o di informatica, intere discipline vengono sempre più rapidamente sostituite da nuovi saperi. Riforme, nuove scoperte, nuovi strumenti tecnologici, nuove modalità organizzative sono sfide alla conoscenza e al comportamento quotidiano. Ondate di novità travolgono il professionista che deve “imparare ad imparare” sempre più in fretta e, nondimeno, a disfarsi sempre più rapidamente delle proprie abitudini ed esperienze precedenti quando non più produttive. La conoscenza accumulata va in disuso sempre più velocemente e sempre più spesso rappresenta un limite.

Sembra quasi che l’esperienza non serva più e che i giovani siano i favoriti, soprattutto per la loro conoscenza nativa del mondo digitale e per la loro grande capacità di rimettersi in discussione.

In questo contesto liquido (e a tratti forse maleodorante) l’approccio da tenere in ogni situazione lavorativa assomiglia sempre di più a quello di un bambino inesperto e curioso, e l’unica reale virtù sembra essere la capacità di rialzarsi rapidamente dalle sconfitte, che l’incertezza costante rende praticamente inevitabili. Anzi, non c’è nemmeno il tempo di vivere, per rielaborarli, la frustrazione e lo sconforto che la sconfitta generalmente porta con sé perché è imperativo non perdere tempo.

Autoassolversi in fretta è la parola d’ordine. Anche quando dobbiamo apprendere il funzionamento di un nuovo strumento di lavoro, si sta troppo tempo a studiare i manuali. Meglio smanettare anche a rischio di toccare qualche tasto sbagliato e di dover ripartire da zero. È la legge della provacy, che ci costringe tutti ad andare per tentativi. E financo a non poter più diventare esperti di nulla.

In questo quadro è indispensabile imparare ad orientare con molta attenzione il proprio orgoglio.

L’orgoglio, si badi, è una delle qualità fondamentali per fare il professionista. Fare il professionista significa proporsi di risolvere problemi altrui, che generalmente le persone non saprebbero come affrontare da sole. Quindi chi fa una libera professione si pone necessariamente in una posizione di superiorità intellettuale nei confronti  degli altri. Contemporaneamente fare il professionista significa mettersi al servizio degli altri e questa circostanza per fortuna va a compensare la presunzione di fondo che il professionista ontologicamente manifesta. E d’altra parte, un professionista non orgoglioso non sarebbe in grado di assumersi problemi altrui o comunque non ne sarebbe sufficientemente coinvolto per poterli efficacemente risolvere. L’orgoglio ha probabilmente portato il professionista a superare le sfide dell’educazione e dell’esame di stato, a tenersi aggiornato, a raggiungere i suoi obiettivi di studio e di lavoro, e a confrontarsi con i competitor e con il pubblico in generale.

L’orgoglio è una sana manifestazione di autostima, in mancanza della quale il professionista sarebbe colto dalla "sindrome dell’impostore" e non potrebbe prestare la sua consulenza.

Anche nei contesti incerti di oggi l’orgoglio può essere una importante risorsa per il professionista.

Bene se utilizziamo la nostra fierezza per incrementare la resilienza davanti a sfide sempre più ardue, bene anche se la sfruttiamo per rinascere più in fretta da una sconfitta. Male se invece l’orgoglio diventa autoreferenza, diventa non accettazione a priori di alcun genere di critica, cristallizzazione dei pensieri precedenti che vengono proposti come dogmi.

Purtroppo invece molte volte il professionista pone l’orgoglio come una barriera. Una barriera che alla fine è un limite alla sua evoluzione e al suo apprendimento.

Un vero professionista non accetta critiche da parte di nessuno. Anche molti impiegati e impiegate degli studi professionali, i c.d. para-professionisti, hanno lo stesso comportamento. Un vero professionista si offende mortalmente se qualcuno questiona i risultati del suo lavoro e ancora di più se qualcuno osa discuterne il metodo. Sono attacchi che vengono letti come affronti personali a prescindere se il risultato del lavoro fosse soddisfacente o migliorabile, e magari la critica fosse assolutamente costruttiva.

Questo atteggiamento va cambiato. Poteva funzionare in un momento in cui il numero di errori che il professionista o il para-professionista compiva era basso ed infrequente. Oggi, per i motivi che abbiamo detto, siamo tutti costantemente dei novellini e quindi la probabilità di sbagliare e il numero di confronti sulla qualità e quantità del lavoro svolto aumenta e può coinvolgere verificatori, clienti, colleghi, superiori e sottoposti.

È quindi indispensabile che il professionista capisca e accetti che quasi sempre chi lo critica in realtà lo apprezza, vuole soltanto riorientare i suoi comportamenti per renderli più proficui. Dovrebbe invece imparare a temere piuttosto chi tace o finge di sorridergli, e poi lo abbandona o lo pugnala alle spalle.

Nella prossima puntata, discuteremo invece dell’atteggiamento del professionista che attende passivo che i clienti vengano a lui, cadendogli addosso come la mela di Newton.

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