Organizzare lo studio: lo faremo se e quando avremo tempo. Forse.

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Per il professionista titolare di studio o responsabile di un team, ma anche per quello operativo, organizzare la propria attività dovrebbe essere la priorità assoluta. Più ci pensi prima, e meno fatica fai a fare le cose dopo. Invece, la tensione del professionista è sul fare, sempre in carenza di ossigeno. Testa bassa e lavorare. Magari fare sbagliato, impiegarci il doppio del tempo, effettuare controlli assurdi e saltare quelli importanti, sovraccaricare alcune risorse (quelle più disponibili) e acconsentire tacitamente l’improduttività di altre. Brandire gli strumenti informatici come clave, usandoli al 20% delle loro potenzialità, trattenere a sé lavori pacificamente delegabili e assegnare a terzi incombenze iper-complesse che non si ha voglia di affrontare.

Prima di svolgere qualsiasi lavoro chiedersi invece chi deve fare che cosa, come dovrà farlo e con quali risorse, permette di ottimizzare i tempi e i costi di erogazione.

Organizzare significa specializzare e dividere il lavoro e coordinare mettendo in comunicazione. Organizzare significa anche tempificare e sequenziare le attività. In presenza di un ambiente continuamente cangiante, come quello in cui stiamo vivendo, la regola della pianificazione non dovrebbe subire eccezioni ma diventare anche lei altrettanto dinamica. La continua ripianificazione delle agende e delle risorse dovrebbe essere una costante nei nostri studi.

Invece, visto che non si riesce a pianificare in maniera fissa il da farsi, il professionista rinuncia tout court ad ogni forma di programmazione e di organizzazione, per vivere alla giornata. E così le cose urgenti scavalcano quelle importanti. Nell’ansia e nella fretta di rispettare le scadenze, spesso tutti corrono dietro alla palla come bambini che giocano a calcio, dimenticando specializzazioni, ruoli, controlli, sicurezze.

In molti studi, i ruoli sono pressoché indefiniti. Non si sa dove comincia il lavoro di uno e dove finisce quello dell’altro. Il titolare dello studio, poi, è come il prezzemolo: interviene dappertutto.

I collaboratori non hanno carta bianca ma carta grigia, perché il titolare entra costantemente a gamba tesa a fare e disfare quello che magari loro hanno già imbastito.

Ad alcune persone, le “eminenze grigie” dello studio, è concessa autorità senza avere alcuna responsabilità. Altri soggetti, di solito i più promettenti e disciplinati, vengono invece bruciati facendoli magari responsabili di area senza alcuna preparazione manageriale e, soprattutto, senza poter decidere nulla. Già dal nome di coordinatori o referenti si capisce che… li hanno incastrati!

Più di una volta mi sono sentito dire da persone intelligenti e preparate “faremo le procedure quando avremo tempo”, mentre oggi come oggi uno studio dovrebbe essersi già dotato di procedure almeno vent’anni fa. Le big four e le big law lavorano con procedure scritte dalla notte dei tempi e non è un caso che controllino la maggior parte (e la più florida) del mercato, pur avendo costi di produzione enormemente più bassi di quelli degli studioli di provincia. Talvolta i progetti di stesura e adozione delle procedure si arenano per anni come se il tempo fosse illimitato, come se all’esterno non ci fosse una competizione bruciante, come se farlo domani fosse lo stesso che farlo oggi. Ho un amico titolare di studio che è da cinque anni che ha le procedure di studio predisposte dai suoi collaboratori e dipendenti ma non riesce a validarle, cioè a leggerle e a dire che vanno bene. In consulenza, abbiamo dovuto adottare la provvisoria esecutività delle procedure perché è la direzione che non riesce a rileggerle.

L’altra considerazione che sento spesso è “non abbiamo tempo per fare le procedure”. È proprio quando hai poco tempo che ti servono le procedure. L’approccio giusto in assenza di tempo per sviluppare procedure di lavoro scritte all’interno dello studio sarebbe quello di comprarle, di farsele fare facendosi aiutare da un consulente esterno. Ma scattano meccanismi atavici di orgoglio e di avversione all’investimento, soprattutto se di carattere immateriale, che affronteremo in altre puntate di questo blog.

Non manca anche chi dice “Abbiamo le procedure ma non le applichiamo perché non abbiamo il tempo”, oppure “Il nostro studio è troppo piccolo per avere delle procedure da seguire”.

Osservo che anche quando si è di fretta il lavoro che lo studio svolge avviene comunque attraverso una sequenza di attività nel tempo, cioè un processo. E queste attività sequenziate si possono comunque trasfondere in una procedura, che è un documento che descrive le cose da fare in ordine cronologico. Eventualmente, quando siamo di fretta, la sequenza delle attività sarà più corta perché verrà eliminato o posposto qualche passaggio, di solito purtroppo i controlli. O ancora quello che salta sono le registrazioni su carta o informatiche dei controlli che vengono comunque eseguiti.

Quindi se nei momenti di punta o di emergenza non riuscite a utilizzare le vostre procedure, o avete scritto il libro dei sogni, trasformandole in camicie di forza, oppure state saltando qualche passaggio importante e quindi state rischiando davvero di brutto. In emergenza anzi le procedure sono particolarmente utili. Dovrebbero servire proprio a selezionare consapevolmente e a priori a quali attività rinunciare o posporre perché meno indispensabili.

Alle volte, si rimedia a questa applicazione parziale delle procedure fingendo. Con buona pace di tutti, molti studi certificati ISO 9000 si fanno fare il maquillage poco prima della verifica dell’ente di certificazione, sistemando tutto giusto per ottenere il bollino.

Per onestà intellettuale, più che di mancanza di tempo dovremmo dunque parlare di mancanza di volontà, di timore di non avere il consenso, di paura di rovinare situazioni ampiamente subottimali ma pur sempre funzionanti, e anche di paura di non farcela a mettere a posto le cose, viste le molte incresciose situazioni da sistemare.

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