Per un professionista gli investimenti sono spese

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Secondo le definizioni dei principali dizionari, la parola Investire significa “impiegare utilmente risparmî (o somme in genere) in capitale o in imprese fruttifere” oppure “Impiegare un capitale in beni durevoli”.

A livello di etimo, il verbo investire deriva dal latino e significa "coprire con una veste, rivestire, circondare". Da qui il significato di dare al denaro una nuova veste "investendolo" appunto.

Nell’ambito della propria attività moltissimi professionisti si assumono, spesso con noncuranza, rischi professionali enormi. Ad esempio un commercialista quando partecipa ad un collegio sindacale è di fatto un socio illimitatamente responsabile, ma senza alcun diritto ai dividendi e con limitatissimo potere decisionale su come i danari vengono impiegati. È l’opposto del patto leonino, clausola illecita in base alla quale il socio non risponde di eventuali perdite. Il sindaco, come un fideiussore, partecipa illimitatamente solo alle eventuali perdite ma non divide alcun utile.

A fronte dell’assunzione di elevatissimi rischi professionali sui singoli incarichi, il professionista fa una fatica enorme quando si tratta di rischiare somme di denaro nello sviluppo del proprio studio.

In altre parole il professionista medio tende a sovrastimare Il rischio derivante dagli investimenti nello studio e a sottostimare quello degli incarichi professionali che riceve.

Forse un motivo di questa incapacità di intravvedere pienamente il ritorno degli investimenti va ascritta al regime contabile fiscale “di default” al quale i professionisti sono assoggettati, che rimane quello di cassa. Se compro gli schermi dei computer nuovi a tutto lo staff , quest’anno non posso andare in settimana bianca a Cortina.

Il professionista ha sempre rimarcato con orgoglio la propria differenza dagli imprenditori. La mia analisi dimostra che aveva perfettamente ragione. Sicuramente una differenza importante sta nel fatto che gli imprenditori non sono obbligatoriamente vincolati ad un codice deontologico. Ma la caratteristica dirimente sta proprio nell’incapacità del professionista medio di accettare il rischio dell’insussistente o del tardivo/parziale ritorno.

Gli imprenditori investono e rischiano, ma così facendo ottengono il rendimento del loro investimento. Il professionista invece quando deve scegliere tra un uovo oggi o una gallina domani preferisce quasi sempre l’uovo.

L’insorgere della pandemia, ad esempio, ha messo a nudo la situazione tecnologica della maggior parte degli studi, che non era pronta a lavorare in videoconferenza né con i clienti né in smart working, a causa dell’elevata obsolescenza del parco di PC, schermi e postazioni di lavoro. Passi la mancanza di telecamere e altoparlanti, in molti casi si trattava addirittura di posizioni non dotate di scheda audio/video.

Anche l’acquisto di doppi o tripli schermi per i computer, che è un investimento con un ritorno di produttività garantito del 25-30% fin dalle prime settimane di adozione, che quindi si ripagherebbe da solo in poco tempo, spesso non viene effettuato.

In alcuni casi manca proprio la conoscenza dei vantaggi tecnologici, in altri ancora manca il tempo per coltivare e far fruttare l’investimento, in altri ancora sono le abitudini degli addetti a scoraggiare il cambiamento.

Quelle tecnologie che richiedono per la loro adozione un fermo macchina iniziale importante non entrano negli studi, in quanto il tempo del personale sarebbe sottratto al fare.

Ma ancora più spesso è l’avversione al rischio che impedisce al professionista di aprire i cordoni della borsa.

Tra l’altro, gli investimenti più importanti che uno studio professionale può intraprendere non sono in cespiti ma sono di tipo immateriale. Software, metodologie di lavoro, formazione e consulenze acquisite all’esterno, volte a migliorare la qualità tecnica e/o la qualità percepita delle prestazioni professionali.

Su queste poste tanto importanti quanto impalpabili la capacità di spesa del professionista diventa ancora più modesta e la sua ipocrisia cresce a mille. Si lamenta del fatto che i clienti non comprano la sua formazione e consulenza, ma poi si comporta in modo assolutamente identico.

Anche quando il professionista si decida a malincuore di fare un investimento tecnologico finirà col lesinare sulla formazione necessaria ad utilizzarlo. Falso risparmio percepito contro una inefficienza garantita: quella soluzione digitale sarà rigettata o utilizzata a non più del 10% delle proprie potenzialità.

Spiace infine constatare che la proverbiale avversione al rischio del professionista trova un limite molto netto quando si tratta dei propri gadget. Per quelli c’è sempre posto. E così l’ultimo modello di auto ibrida, lo smartphone più alla moda, il palmare di nuova generazione fanno spesso capolino in studi dotati, nemmeno in tutte le postazioni, di 386 con cinescopi a fosfori verdi e dove le persone si formano come gli sciamani, tramandandosi il sapere tra di loro. Oralmente e di nascosto. Occorre invece che i professionisti rivedano i propri criteri di valutazione dei rischi e che inizino ad accettare il rischio imprenditoriale che deriva dall’investimento del proprio denaro in beni durevoli e servizi reali mirati ad aumentare l’efficacia ed efficienza delle prestazioni.

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