PERDERE IL CLIENTE O RISCHIARE LA GALERA? A VOLTE, QUESTO E’ IL DILEMMA

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Un commercialista che, in presenza di operazioni oggettivamente inesistenti, non si astiene dal compiere attività professionali ad esse riferibili (e non butta fuori prima possibile dallo studio quel cliente in odore di frode per paura di perderlo), secondo la Cassazione di fatto contribuisce all’attuazione della frode fiscale finalizzata all’evasione delle imposte sui redditi e Iva mediante documenti relativi ad operazioni oggettivamente inesistenti.

E' questa la conclusione a cui è approdata la Corte di Cassazione con la sentenza n. 156/2022 del 10 gennaio scorso.

In qualità di professionista e depositario delle scritture contabili di due società che avevano, rispettivamente, sia emesso che ricevuto fatture vere come una banconota da 300 euro e, quindi, in un contesto in cui il consulente non poteva non essere consapevole dell’attività non adamantina del cliente, anche il professionista è stato condannato per aver consentito l’indicazione, nella dichiarazione annuale, di elementi passivi fittizi avvalendosi di false fatture, ex D.Lgs. 74/2000.

Ovviamente, la difesa aveva proposto ricorso, affermando che un mero contabile della frode non fosse consapevole della frode e che il solo fatto di essere stato il commercialista delle due società che avevano commesso illeciti non poteva comportare un’automatica condanna in concorso per i reati contestati.

Tuttavia, le tesi difensive del professionista sono state ritenute fondate come quelle di quel marito in mutande che giurava fedeltà alla moglie dopo essere stato scoperto a letto con una formosa ventenne, cosicché la Suprema Corte ha ritenuto pacifica la configurabilità del concorso del commercialista con il contribuente nei reati tributari previsti dal D.Lgs. 74/2000.

D'altro canto, per costante orientamento giurisprudenziale, ben si può concorrere in un reato fiscale in molti modi e, come in questo caso, anche tramite un “contributo agevolatore”, il quale si realizza quando la mancanza dello stesso avrebbe magari comunque comportato la commissione del reato, ma sicuramente con maggiori incertezze circa la sua riuscita.

Quel commercialista aveva tenuto la contabilità delle società, registrate le fatture, trasmesso il bilancio, predisposto e firmato le dichiarazioni fiscali e, nondimeno, risultavano molte autofatture per importi rilevanti e prelievi di somme in contanti fino a 30.000 euro al giorno.

Ma vi è di più, Tali anomalie, peraltro, erano state anche segnalate al commercialista da una sua dipendente addetta contabile, ma egli aveva ritenuto di poter comunque proseguire una simile assistenza “per il timore di perdere clienti".
Acclarato, allora, un contributo partecipativo nella omessa segnalazione delle anomalie rilevate nella contabilità, il ricorso del professionista è stato rigettato con la sua condanna a due anni e sei mesi di reclusione.

Chiaramente, a volte, nei casi di irregolarità contabile e fiscale un professionista, in base al proprio patrimonio informativo acquisito su un cliente che escluda opache circostanze, potrebbe anche decidere di non produrre segnalazioni di un inadempimento, ma in presenza di evidenti elementi di un’attività criminosa di tipo fiscale non può esserci alcuno spazio per valutazioni di convenienza economica per evitare una SOS e per non vedere confermato quello che molti magistrati ipotizzano assai spesso: ovvero che dietro una frode fiscale ci sia ordinariamente almeno la consapevolezza, se non addirittura l'ispirazione o la regia, di un professionista.

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