Se il magazzino è infedele, accertamento induttivo “puro” anche in assenza di specifici obblighi contabili

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Nella determinazione del reddito d'impresa, per la valorizzazione del magazzino il contribuente può applicare uno qualsiasi dei metodi previsti dalla legge, subordinatamente alla condizione che il valore non sia inferiore a quello minimo determinato a norma dell'art. 92 del TUIR.
Per ottenere tale valore occorre innanzitutto raggruppare i beni in categorie omogenee per natura e per valore.

Come noto, peraltro, al ricorrere di determinati requisiti l'art. 14 co. 1 lett. d) del DPR 600/73 impone ai soggetti imprenditori, in regime di contabilità ordinaria, l'obbligo di tenuta delle scritture ausiliarie di magazzino, al fine di monitorare le variazioni intervenute tra le consistenze negli inventari annuali ma, per ricostruire il reddito di una società mediante l’accertamento induttivo “puro” (art. 39 comma 2 del DPR 600/73) non occorre che le gravi irregolarità siano relative a scritture contabili la cui tenuta sia obbligatoria. Tale documentazione, infatti, in caso di palese non correttezza può comunque fondare un accertamento induttivo puro.

Lo ha statuito la Corte di Cassazione con sentenza n. 12127 del 14 aprile 2022 nell'ambito di un accertamento nei confronti di una Srl. Dalle rimanenze di magazzino emergevano incongruenze su dati di costo di acquisto e, alla luce dell’inattendibilità per assenza di riscontro documentale e contabile rispetto alle scritture addotte, secondo i verificatori si erano sopravvalutate le rimanenze con ciò occultandosi operazioni non contabilizzate.
La difesa puntava tutto sulla tesi secondi cui l’inattendibilità delle rimanenze fosse comunque non sostenibile in ragione della circostanza che, per dimensioni quantitative, la Srl non fosse tenuta alla contabilità di magazzino ex art. 14 comma 1 lett. d), DPR 600/73, e che perciò i dati in essa contenuti anche qualora non corretti, non avrebbero potuto fondare un induttivo "puro".

Al contrario, i giudici di legittimità affermano che l’art. 39 comma 2 lett. d), DPR 600/1973 facendo riferimento alla gravità, numerosità e reiterazione delle “irregolarità formali delle scritture contabili” tali da renderle inattendibili nel loro complesso “per mancanza delle garanzie proprie di una contabilità sistematica”, non distingue in alcun modo fra scritture obbligatorie e non.

Conseguentemente, non è l’obbligatorietà della tenuta delle scritture contabili a poter evitare al contribuente la necessità di iscrivere dati puntuali, attesa l'inviolabilità del principio civilistico della rappresentazione veritiera e corretta.
La nozione di scritture contabili, infatti, per i giudici comprende tutti i documenti che registrino, sia in termini quantitativi che monetari, i singoli atti d’impresa ovvero rappresentino la situazione patrimoniale dell’imprenditore e il risultato economico dell’attività svolta.

Da ciò ne discende che l'irregolarità di dati contenuti nelle scritture contabili, ancorché non obbligatorie, e la loro conseguente inaffidabilità, possa ben fondare l’accertamento induttivo anche puro, con ciò abilitandosi l'ufficio a poter rideterminare il reddito attraverso un sistema di presunzioni super-semplici, che ribaltano l’onere della prova in capo al contribuente.

In base agli artt. 39 co. 2 del DPR 600/73 (e 55 del DPR 633/72,) il reddito e/o le operazioni imponibili possono essere rettificate con minor rigore e l'inattendibilità delle scritture autorizza a prescindere da esse per procedere in via induttiva, avvalendosi anche di semplici indizi sforniti dei requisiti necessari per costituire prova presuntiva.

In conclusione, tutte le scritture provenienti dall’imprenditore, anche non obbligatorie, possono avere valore (se non corrispondenti al vero rispetto alle annotazioni contabili) per aprire ad accertamenti potenzialmente assai lesivi per il contribuente.

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