STATUS DEL CONVIVENTE DI FATTO: A CHE PUNTO SIAMO?  

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Non di rado il diritto presenta una problematica di arretratezza. Esso è tenuto, infatti, ad adoperarsi in una costante rincorsa alla realtà quotidiana. È di facile intuizione la difficoltà persistente nell’aggiornamento che la normativa deve subire, al fine di adeguarsi alle varie fattispecie di volta in volta nascenti. D’altronde, l’esistenza di una norma giuridica trova giustificazione nella necessità di regolare una concreta situazione, in mancanza della quale, non è dato riscontrare l’utilità di alcuna disposizione. Insomma, dicendolo più chiaramente, ove esistesse una determinata fattispecie, oppure una già esistente subisse una decisa evoluzione, sorgerebbe il bisogno di avere una norma tesa a regolarne il funzionamento; al contrario, una norma rivolta alla disciplina di una realtà inesistente, perché tale sia divenuta successivamente oppure mai lo sia stata, perde di significato.

Tentiamo di chiarire la questione con un esempio: nel ramo del nostro Ordinamento conosciuto come “diritto privato”, esiste un’area specificamente nota come “diritto della famiglia” e, come molti possono immaginare, è teso a regolamentare i rapporti insistenti tra i membri di una famiglia, la quale veniva definita secondo i canoni, gli usi e costumi propri del momento storico in cui tali regole venivano messe per iscritto, ovverosia quasi un secolo fa.

Uno studio compiuto nel 2015 da Alessandra de Rose, prof.ssa ordinaria di Demografia pressa l’università La Sapienza di Roma, ci informa di come “fra tutti i cambiamenti che sono in atto nel mondo, nessuno è più importante di quelli che riguardano le nostre vite personali: sessualità, relazioni, matrimonio e famiglia […] e soprattutto nel Vecchio Continente, la formazione della famiglia risulta sempre meno legata all’istituto matrimoniale”. Ancora, “infatti, se fino alla metà del secolo scorso il matrimonio, definito come la sanzione del legame affettivo e sessuale tra un uomo e una donna, è stato la modalità prevalente di vita di coppia e l’atto fondante della quasi totalità dei nuclei familiari, agli albori del XXI secolo non è più necessario sposarsi per dar vita ad una nuova famiglia […], è evidente, pertanto, che le tipologie familiari “tradizionali” hanno perso la loro forza vincolante”.

Proprio in ragione di tale mutamento nelle dinamiche sociali, il legislatore ha intuito la necessità di individuare dei precetti, all’interno del più ampio quadro normativo riferito alla famiglia, rivolti alle sempre più nascenti ipotesi di convivenza more uxorio (lett. “a modo di moglie”, intendendo, con tale locuzione latina, la condizione di una coppia di persone stabilmente conviventi ancorché non legate dal vincolo matrimoniale).

La prima regolamentazione di tale fenomeno sociologico si rinviene nella L. n. 76/2016 (cd. Legge Cirinnà), la quale ha inteso assicurare, ai soggetti protagonisti di tali unioni di fatto, gli stessi diritti, taluni inviolabili, relativi alla personalità di ciascuno e alle sue relazioni sociali, ai sensi dell’art. 2 Cost, ormai pacificamente considerato, soprattutto a partire dalla sent. n. 138 del 2010 della Consulta, il referente costituzionale della famiglia di fatto. La disposizione normativa descrive, all’art. 1 comma 36, tali convivenze come lo stato di “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”. Sulla scorta di quanto appena scritto, si può notare come non rilevi il sesso dei soggetti in esame e, allo stesso modo, non rilevi la semplice coabitazione oppure la convivenza meramente occasionale: Cass. n. 9178/2018 fornisce un’identificazione giuridica delle citate fattispecie, affermando che sia necessario “ripensare al concetto stesso di convivenza, la cui essenza non può appiattirsi sulla coabitazione […], può esistere una famiglia di fatto o una stabile convivenza, intesa come comunanza di vita e di affetti, in un luogo diverso rispetto a quello in cui uno dei due conviventi lavori o debba, per suoi impegni di cura e assistenza, o per suoi interessi personali o patrimoniali, trascorrere gran parte della settimana o del mese, senza che per questo venga meno la famiglia”.

Ogni qualvolta si venga ad instaurare una nuova convivenza di fatto, ai sensi del primo comma, lettera b) dell’articolo 13 del Regolamento anagrafico (d.p.r. n. 233/1989), colui il quale sia responsabile della convivenza, ex art. 6 dello stesso decreto presidenziale, è tenuto a darne comunicazione al comune di residenza, mediante un’autocertificazione avente finalità probatoria (Tribunale di Milano ordinanza del 31 marzo 2016). Tale dichiarazione non corrisponde a quanto stabilito al comma 50 dell’articolo 1 della legge 76/2016, ovvero i contratti di convivenza.

All’art. 38 e ss. comma 1 della citata legge Cirinnà sono sanciti tutele e diritti riservati ai conviventi di fatto: si tratta di diritti relativi all’ordinamento penitenziario, diritti di assistenza, visita ed accesso alle informazioni personali in caso di malattia o ricovero di rappresentanza in caso di morte o malattia, il diritto agli alimenti, il diritto sulla casa familiare, il diritto di subentro nel contratto di locazione, all’utilizzo del titolo di appartenenza ad un nucleo familiare se utile all’assegnazione di alloggi di edilizia popolare, di essere nominato tutore, curatore o amministratore di sostegno nel caso in cui l’altro convivente venga dichiarato interdettoinabilitato o incapace di provvedere autonomamente alla cura dei propri interessi.

Invero, vi è un ulteriore diritto, oltre ai precedentemente citati. Va ricordato che il familiare, definito secondo l’art. 230 bis cod. civ. come il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo, che presti attività continuativa presso l’impresa familiare contribuendo ad accrescerne l’attività, ha diritto al mantenimento (dunque alla retribuzione per il lavoro svolto) e alla partecipazione agli utili. La L. n. 76/2016, per effetto del comma 46, introduce l’art. 230 ter cod. civ. il quale equipara il convivente di fatto al familiare partecipante all’impresa.

Chiunque, tra i lettori, abbia un po’ di dimestichezza con la normativa giuslavoristica, sa bene come conseguentemente all’entrata in vigore di un qualunque intervento legislativo, si esprimono anche gli istituti previdenziali, dettando le procedure operative e modalità di realizzazione pratica di quanto contenuto nel testo di legge, di fatto dando vita a quello che parte della dottrina chiama “diritto (del lavoro) circolatorio”: a riprova di ciò, infatti, si è avuto lo stesso procedimento con la Legge Cirinnà.

La circolare dell’INAIL n. 45/2017, chiarisce come “in assenza di una espressa disposizione normativa in materia di equiparazione di status tra coniuge e convivente di fatto, quest’ultimo non può essere ritenuto beneficiario delle prestazioni economiche erogate dall’INAIL”, il che comporta anche l’esclusione da qualsivoglia obbligo in tema di assicurazione obbligatoria. Dello stesso avviso sembra essere l’INPS, quando, con la circolare n. 66/2017, pur riconoscendo che la legge 76 stabilisce l’estensione di talune tutele riservate al coniuge o ai familiari anche nei confronti dei conviventi di fatto, riconosce che la stessa normativa “non introduce alcuna equiparazione di status, né estende al convivente, per quanto di interesse, gli stessi diritti/obblighi di copertura previdenziale previsti per il familiare coadiuvante”. Infatti, ulteriormente si ribadisce che “il convivente di fatto, non avendo lo status di parente o affine entro il terzo grado rispetto al titolare d’impresa, non è contemplato dalle leggi istitutive delle gestioni autonome quale prestatore di lavoro soggetto ad obbligo assicurativo in qualità di collaboratore familiare”. A tale presa di posizione si aggiunge una chiosa circa il già citato art. 230 ter del cod. civ., il quale, già si è detto, attribuisce al convivente che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente il diritto di partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato: quanto detto, però, ha valenza nell’esclusivo caso in cui non si configuri un rapporto di altra natura, subordinata o di società. Stante quanto si è scritto circa il 230 ter, l’INPS rileva come non possano sussistere i presupposti per una piena equiparazione, poiché, altrimenti, il legislatore “avrebbe utilizzato locuzioni idonee ad includere il convivente nella formulazione del predetto articolo e non avrebbe al contrario introdotto un nuovo articolo, che disciplina separatamente i diritti del convivente che presti attività in un’impresa familiare”.

Tirando le somme di quanto gli istituti hanno asserito, si può concludere come, nonostante eventuali attribuzioni di utili d’impresa, queste non hanno alcuna rilevanza in ordine all’insorgenza dell’obbligo, contributivo e assicurativo, del convivente di fatto, poiché assenti i legami necessari di parentela o affinità.

Si aggiunga che, in risposta ad un quesito formulato dall’ITL di Cosenza, sul tema è intervenuto anche l’INL, con nota del 23 maggio dello scorso anno, il quale sostanzialmente conferma gli orientamenti già espressi dai due istituti, pur nel dettaglio richiamando solo la posizione dell’INPS: l’INL “propende per la conferma delle istruzioni sopra richiamate in quanto ritenute coerenti con i dati normativi qualificatori delle posizioni soggettive coinvolte, come interpretate a tutt’oggi dalla Giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 22405/2004 e n. 4204/1994) che esclude, per quanto in questa sede di stretto interesse, l’equiparazione di status tra il coniuge (e, per assimilazione normativa, le parti unite civilmente) e il convivente more uxorio”.

Tale permanente differenza di considerazione viene confermata anche dalla Giurisprudenza maggioritaria, ad es. Cass. civ., sez. un., 18 dicembre 2023, n. 35385, la quale riconosce l’attuale normativa come fondata su una differenza di modelli, poiché il matrimonio e, per volontà del legislatore, l’unione civile, appartengono ai modelli c.d. “istituzionali”, mentre la convivenza di fatto, al contrario, è un modello “familiare non a struttura istituzionale”.

Come qualificare il convivente di fatto?

In via introduttiva alla risposta alla domanda presentata, è bene ricordare come sia possibile riconoscere il collaboratore familiare. Con lettera 14184 del 10 giugno 2013, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha fornito delle indicazioni, tutt’ora applicabili, in merito ai requisiti che il collaboratore familiare deve presentare per essere riconosciuto come tale. Ai fini dell’assicurazione INPS il limite quantitativo da superare, affinché al collaboratore sia riconosciuta un’attività continuativa e dunque l’intera serie di diritti dell’art. 230 bis cod. civ., è di 90 giorni, ovvero 720 ore annue. In merito a ciò, è intervenuta Cass. n. 4535/2018, individuando i requisiti oggettivi in presenza dei quali la collaborazione può dirsi continuativa e, dunque, far sorgere i diritti di cui sopra: una retribuzione periodicamente corrisposta per un’attività svolta in modo costante e cadenzato, in un lasso temporale coincidente con il normale orario di lavoro presso l’attività ed un precipuo apporto alla programmazione e organizzazione dell’attività stessa. Per contro, ai fini dell’assicurazione INAIL è tutelabile qualunque attività svolta che non abbia carattere di assoluta occasionalità: si possono escludere, cioè, tutte quelle prestazioni rese in maniera meramente accidentale, ovverosia se rese una o due volte nell’arco dello stesso mese e, complessivamente, nell’anno non superino i 10 giorni totali. Di fatto, quindi, nel rispetto delle indicazioni temporali anzidette, il collaboratore familiare ex art. 230 ter potrebbe essere assicurato contro gli infortuni sul lavoro e malattie professionali, ma non godere di alcuna tutela INPS.

Tale soggetto godrebbe, peraltro, di un costo relativo al premio INAIL decisamente inferiore, essendo riconosciuta, infatti, la facoltà di dimostrare la saltuarietà delle prestazioni rese. Inoltre, ai sensi del D.L. n. 146/2021 e della circolare INL 3/2021, non essendo obbligatoria la comunicazione UNILAV, bensì solamente una comunicazione ex art. 23 d.p.r. 1124/1965, non sarà possibile nemmeno procedere con l’irrogazione della c.d. “maxisanzione” per i lavoratori irregolari e nemmeno la sospensione dell’attività ex art. 14 T.U. 81/2008, la quale opera nel caso in cui il 10% della forza lavoro impiegata di fatto sia irregolare.

Sarà senz’altro possibile procedere con un più “classico” inquadramento del convivente, ovverosia, ad esempio, come lavoratore subordinato oppure parasubordinato. È pur vero che, in sede di ispezione, tali rapporti potrebbero essere oggetto di dubbio, e conseguentemente di contestazione, da parte dell’organo ispettivo: a tal riguardo, tuttavia, si rammenti l’assenza di un divieto normativo circa tale realizzabilità e la conseguente possibilità, nel caso di disconoscimento del rapporto, di rivolgersi al Comitato regionale per i rapporti di lavoro ex art. 17 D.Lgs. n. 124/2004, presentando ricorso fondato sui più noti indicatori tipici della subordinazione, così come affermato da Cass. n. 1095/2023, la quale ricorda che “costituisce elemento essenziale, come tale indefettibile, del rapporto di lavoro subordinato, e criterio discretivo, nel contempo, rispetto a quello di lavoro autonomo, la soggezione personale del prestatore al potere direttivo, disciplinare e di controllo del datore di lavoro, che inserisce nelle intrinseche modalità di svolgimento della prestazione lavorativa e non già soltanto al suo risultato […], tale assoggettamento non costituisce un dato di fatto elementare quanto piuttosto una modalità di essere del rapporto potenzialmente desumibile da un complesso di circostanze; sicché, ove esso non sia agevolmente apprezzabile, è possibile fare riferimento, ai fini qualificatori, ad altri elementi (come, ad esempio, la continuità della prestazione, il rispetto di un orario predeterminato, la percezione a cadenze fisse di un compenso predefinito, l’assenza in capo al lavoratore di rischio e di una seppure minima struttura imprenditoriale), che hanno carattere sussidiario e funzione meramente indiziaria. Tali elementi, lungi dall’assumere valore decisivo ai fini della qualificazione giuridica del rapporto, costituiscono indizi idonei ad integrare una prova presuntiva della subordinazione, a condizione che essi siano fatto oggetto di una valutazione complessiva e globale”.

Il tema, ad oggi, pare non avere trovata una precisa definizione, il che comporta dubbi e indecisioni, talvolta di non facile risoluzione. La certezza del diritto è un punto fondamentale di ogni Ordinamento moderno e il suo aggiornamento risulta essere l’arma più utile contro contenziosi e discrasie interpretative.

Un barlume di speranza, in merito ad un possibile punto di arrivo, è rappresentato dalla recente questione di legittimità costituzionale sollevata dalla S.C. di Cassazione, con ordinanza n. 1900 del 18 gennaio 2024, fondata sull’irragionevole, a suo dire, diversità di trattamento del partner non coniugato, rispetto ai familiari ex art. 230 bis e L. 76/2016 ed una sostanziale contrarietà dell’attuale normativa rispetto ai dettami della Costituzione, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dei principi enunciati dalla Corte EDU.

 

 

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