Un vero professionista si aggiusta da solo?

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Quasi tutti i miei colleghi esperti di management e marketing degli studi professionali evitano di utilizzare nella proposizione dei loro servizi la parola “consulente”. L’hanno accuratamente eliminata dai biglietti da visita, dai siti web, dalla comunicazione sui social.

Preferiscono di gran lunga utilizzare terminologie come formatore o coach, e per molto tempo mi sono chiesto il perché.

Ora la ragione mi è ben chiara: formatore e coach sono entrambe accezioni che lasciano tutto il merito dell’apprendimento e del cambiamento al cliente, ponendo il consulente in una posizione ancillare, secondaria, one-down.

La parola consulente invece fa presumere che il cliente “non ci poteva arrivare da solo” perché il tema era troppo intricato e complesso per lui. Da qui il bisogno di munirsi di un esperto.

Ed in effetti molti professionisti soffrono perché sono troppo orgogliosi per dotarsi di un consulente.

È infatti risaputo che ai professionisti non piace per niente dover ammettere di non farcela, e ancora di più dover ammettere di non arrivarci, cioè di non riuscire a dominare intellettualmente un determinato tema.

Questo li porta spesso a fare pericolose generalizzazioni. Se io Avvocato Mario Rossi non sono riuscito a trovare dei buoni soci non mi farò un esame di coscienza per vedere se potevo cercare meglio (o se potevo comportarmi meglio) ma dirò a me stesso che è impossibile aggregare dei professionisti.

Ricordando una vecchia pubblicità televisiva, la maggior parte dei professionisti quindi sono orientati al “fai da te” anche quando “Alpitour” sarebbe molto meglio.

E se questo è vero per le materie tecniche, nelle quali è risaputo ogni professionista si ritiene superiore alla media (creando non pochi problemi agli studiosi di statistica), figuriamoci per le materie ancillari e funzionali, come quelle organizzative, che vengono da sempre ritenute “di serie B”. In questo campo è ancora più disonorevole e mortificante non apparire i primi della classe e ammettere di aver bisogno di un aiutino.

Questa circostanza mi è nota fin da quando nell’ormai lontano anno 2000 acquistai per molti milioni delle vecchie lire uno stand al Congresso Nazionale dei Dottori Commercialisti che si teneva a Trieste. Pur giocando in casa, lo stand della mia società di consulenza veniva sistematicamente evitato e disertato dai commercialisti come fosse la rogna. Poi al bar invece i colleghi venivano a salutare ed a confessarsi. Mi sono quindi accorto di essere come la macchinetta dei preservativi fuori dalle farmacie. Meglio nel vicoletto che sulla strada principale, perché la gente a comprare si vergogna.

Ancora oggi quando vado ai galà delle professioni o alle riunioni di qualche club di service, molti miei clienti fingono di non conoscermi ed io benevolmente li assecondo, come il chirurgo estetico delle dive con le sue (rifattissime) clienti.

Ho dovuto anche firmare accordi di non disclosure con importanti brand professionali che non vogliono assolutamente si sappia in giro di essere seguiti da un qualsiasi pischello di provincia.

E il fatto di essere “nato” (professionalmente) come commercialista mi ha probabilmente aiutato a tenere la bocca chiusa, e infatti nella mia comunicazione mai troverete il nome di un cliente.

Una variante del professionista-bricoleur organizzativo e di marketing è rappresentata dal professionista-ape che svolazza di fiore in fiore. Con questo professionista è impossibile andare al di là di un rapporto consulenziale occasionale perché si rivolge sistematicamente a tutti i consulenti, coach, formatori, guru e quant’altro esistenti sul pianeta. Il professionista-ape raccoglie il polline a destra e a manca, ma il miele lo sa fare e lo fa soltanto lui. In questa sintesi sta l’originalità del suo contributo (e l’alibi per accettare gli aiuti esterni). Debbo questa considerazione ad un validissimo collega, che qui non citerò per non danneggiarlo.

A molti professionisti un sano bagnetto di umiltà non farebbe affatto male, se non altro per la considerazione utilitaristica di approfittare degli errori altrui (io ne ho fatti una caterva, molti di più di voi, e continuo a farli ed è l’unico motivo per cui vale la pena di consultarmi) ed evitare così di sostenerne nuovamente ed inutilmente il costo, il rischio e il fastidio emotivo. E invece in quasi ogni studio professionale si preferisce reinventare la ruota anziché munirsi di un consulente. Perché il consulente costa (non è un investimento) mentre il tempo del professionista non vale niente. Basta vedere come generalmente lo gestisce. E così si rinviano sine die i progetti importanti di cambiamento. In fin dei conti, pur di non delegarli all’esterno è meglio non vederli mai realizzati, sancendo così la propria indispensabilità. A quale prezzo in termini di serenità e di mancati fatturati dello studio è ormai chiaro a tutti.

Chapeau quindi a quei professionisti che accettano di farsi aiutare da altri consulenti; la loro crescita è e sarà molto più rapida e sicura. Nella loro umiltà sta la loro grandezza. Io stesso mi sono rivolto e continuo a rivolgermi ad altri per crescere, anche se non è stato facile cominciare a confrontarmi con i miei limiti ed accettare di farmi aiutare. Magari dal mio diretto competitor.

A quelli invece che continuano a curarsi le carie con lo specchio del bagno e il black&decker conviene al più presto rendersi conto di vivere in un completo delirio di onnipotenza. Non siete il consulente globale. Di fronte alla quarta rivoluzione industriale unita alla pandemia universale e all’inizio della terza guerra mondiale, accaduti tutti e tre contemporaneamente, direi che è ragionevole accettare che avete anche voi bisogno (e diritto) ad un aiuto qualificato.

Io per mia parte continuerò imperterrito a definirmi un consulente. Consulente dei consulenti. E se non avete il fegato per averne uno, non fate al mio caso. Però, con ogni probabilità, neppure al vostro.

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