CLAUSOLE DUBBIE DEI CCNL: ESISTE UNA SOLUZIONE?

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È arcinota la problematica scaturente dalla mai avvenuta applicazione dell’art. 39 c.4 Cost., in cui veniva prevista la registrazione dei sindacati, la quale avrebbe determinato “l’efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”. Dunque, in assenza di norme specifiche, la contrattazione collettiva è soggetta alle norme generali in materia di contratti (art. 1321 cod. civ. e ss.), definite di diritto comu­ne e dunque dispieganti la loro efficacia solo tra le parti (art. 1372 cod. civ.). Viene ad esistere, quindi una determinante conseguenza, ovverosia l’interpretazione: il processo logico-deduttivo essenzialmente volto alla determinazione del significato e dell'effetto prodotto da un testo successivamente alla messa per iscritto. Con specifico riferimento al contratto, questa attività è particolarmente rilevante, poiché è volta a determinare il significato (quanto più precisamente) e l'effetto legale prodotto dalle clausole e dalle disposizioni in esso contenute.

L'interpretatio dei contratti può seguire diversi criteri raggruppabili in due categorie principali: l'interpretazione soggettiva e l'interpretazione oggettiva.

Quella soggettiva si propone di sondare l'intenzione delle parti al momento della stipula del contratto, la “reale volontà”, ovvero ciò che le parti hanno effettivamente inteso dire e fare al momento della conclusione dell’accordo. Ai sensi degli artt. 1362 e 1363 cod. civ. è sottolineata l'importanza ricoperta dall’intenzione delle parti, non considerando il solo “testo scritto”, bensì anche altri elementi, ad es. il comportamento delle parti durante le trattative, oppure l'intero impianto del contratto (ponendo ciascuna clausola in relazione con le altre e con l'intero atto).

I criteri di interpretazione oggettiva del contratto, al contrario, si basano su principi oggettivi e “standardizzati”, da applicarsi uniformemente, a prescindere dalla concreta volontà dei contraenti. Questi permettono di interpretare il contratto in modo coerente e oggettivo, garantendo la certezza e la prevedibilità del diritto: si va, ad es., dal il c.d. principio “Contra proferentem” dell’art. 1367 c.c., all’ idea che le clausole vadano interpretate in modo tale da conferire loro un effetto, piuttosto che ritenerle private di tale caratteristica, dell’art. 1368 c.c.

La sentenza della Corte Appello Venezia, datata 30 gennaio 2020, detta una generale gerarchia tra le due categorie, scrivendo che i criteri oggettivi siano integrativi rispetto a quelli soggettivi, il che si spiega mediante la preminente necessità di dare prevalenza alla ricerca della volontà delle parti: in caso di dubbio interpretativo, è d’obbligo comprendere ciò che le parti intendevano al momento della conclusione dell’accordo.

Quanto finora espresso trova aderenza anche al tema relativo all’interpretazione da conferire ad un contratto collettivo e alle clausole ivi iscritte.

  • n. 28550 del 30/09/2022: l’interpretazione dei contratti collettivi deve fondarsi su due criteri da integrarsi vicendevolmente: il senso letterale delle espressioni utilizzate dalle parti contraenti e la ratio ispirante il precetto contrattuale oggetto di interpretazione.
  • Le clausole dei contratti collettivi debbono essere sempre oggetto di interpretazione, anche qualora le parti sociali abbiano utilizzato espressioni letterali chiare, ma, nonostante ciò, non univocamente intellegibili. Dunque si intende superare (come peraltro già avvenuto in altre pronunce ad es. Cass. n. 6484/1994; Cass. n. 12728/2013; Cass. n. 701/2021) il brocardo latino “in claris non fit interpretatio”. Per il tramite dell’attività interpretativa, si rende necessario ricercare la comune volontà dei contraenti, ricorrendo a tutti i criteri ermeneutici utili a tal scopo, facendo particolare riferimento all’art. 1363 c.c. (ovvero l’attribuzione a ciascuna clausola di un senso che scaturisca dal complesso dell'atto).
  • n. 30664/2019: nell'interpretazione del contratto collettivo, il carattere prioritario dell'elemento letterale non va inteso in senso assoluto. L'art. 1362 c.c. infatti, richiama alla ricerca della comune intenzione delle parti e dunque di estendere l'indagine ai criteri logici, teleologici e sistematici laddove si registri, pur nella chiarezza del testo dell'accordo, “una incoerenza con indici esterni che rivelino una diversa volontà dei contraenti”. Si aggiunga che, secondo i Giudici di legittimità (tesi poi confermata dagli Ermellini), assume rilevanza anche il “criterio logico-sistematico” di cui all'art. 1363 c.c., il quale impone di desumere la volontà manifestata dai contraenti attraverso un esame complessivo delle diverse clausole (anche esterne rispetto al testo del contratto stesso) aventi attinenza alla materia.

I contratti collettivi (di qualsiasi settore e livello) sono pur sempre frutto dell’attività redazionale di, almeno, due soggetti contraenti, le c.d. parti sociali. Come sopra esposto, nella lettura del testo di un accordo collettivo, è necessario spendersi nell’attività interpretativa chiedendosi, in sostanza, cosa le parti contraenti intendevano dire in sede di sottoscrizione.

Tradurre un aspetto teorico in pratico non sempre risulta un facile adempimento, tuttavia estremamente necessario per ciascun operatore del diritto. Potrebbe far sorridere qualche lettore, ma non è da escludere, addirittura, l’atto di “bussare alla porta” (gli odierni i mezzi di comunicazione telematici e/o da remoto aiutano notevolmente) di uno dei soggetti stipulanti l’accordo e chiedere delucidazioni. D’altronde, a fronte di una impasse di natura operativa, il combinato disposto della normativa civilistica e delle opinioni giurisprudenziali impone di sondare, quando più approfonditamente possibile, le intenzioni dei soggetti scriventi.

Nelle battute conclusive del presente elaborato ci si può spendere nel riportare taluni esempi, a sottolineare la difficoltà dell’attività interpretativa.

I CCNL “Cooperative sociali” e “Scuole private religiose” introducono un’integrazione, a carico del datore di lavoro, dell’indennità di maternità, con esclusivo riferimento al “periodo di astensione obbligatoria”. La domanda che ci si pone è: nel periodo di astensione obbligatoria, è ricompresa anche l’astensione anticipata ex art. 17 D. Lgs. n. 151/2001?

È parere di chi scrive che si può propendere per estendere l’interpretazione della locuzione “periodo di astensione obbligatoria” anche all’assenza anticipata, così come previsto dall’art. 17 del D. Lgs. 151/2001: ai fini, infatti, della tutela della gravidanza a rischio, si ritiene opportuno concedere alla lavoratrice l’astensione dalla resa della prestazione, conferendo così una maggior rilevanza al dato salutistico che non all’obbligazione lavorativa. Si potrebbe convenire che tale tipo di astensione sia, in qualche modo, “obbligatorio” per la lavoratrice. Tuttavia, richiamando le premesse, sarebbe rilevante conoscere nel dettaglio ciò che le OO.SS. intendano con tale disposizione.

Ancora in riferimento al congedo di maternità con astensione anticipata e integrazione dell’indennità, ci si può chiedere come si debba interpretare una disposizione che preveda un criterio puramente temporale. È il caso dei CCNL Gomma e materie plastiche Confind. e Tessili/abbigliamento Confcomm., i quali stabiliscono che l’integrazione sia da corrispondere per i primi 5 mesi del congedo.

Sembrerebbe prevalere l’ipotesi di lettura della decorrenza dell’indennità a partire dal primo giorno effettivo di assenza, come peraltro riportato sul sito della FILCAMS, in una specifica sezione dedicata all’approfondimento dell’istituto della maternità. Il che sarebbe aderente alla rilevanza da conferire all’art. 1362, ove dispone di tenere in considerazione anche il comportamento successivo dei contraenti. Inoltre, diversi Software di elaborazione dei cedolini operano confermando questa interpretazione. Ciononostante non si può dire di possedere una matematica certezza.

Infine, nel caso del recente rinnovo del CCNL degli Studi professionali, è prevista un’integrazione da corrispondersi per i soli periodi di astensione individuati dall’articolo 16 del D. Lgs. 151/2001. Il riferimento puntuale richiama una norma specifica e, dunque, sembra logico circoscrivere l’integrazione ai soli “ordinari” cinque mesi di astensione: si ritiene decisamente inverosimile che le parti negoziali abbiano effettuato un esplicito ma erroneo riferimento alla normativa, laddove è il successivo art. 17 a disporre l’anticipazione dell’astensione.

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