Danno prodotto dal dipendente e recupero con trattenuta in busta paga: Missione impossibile?

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È un’ipotesi di facile realizzazione quella secondo cui un lavoratore, nello svolgimento della prestazione di lavoro, causi un danno al proprio datore di lavoro.

In virtù di tale danno, il lavoratore sarà tenuto a corrispondere il risarcimento dello stesso? Ed in caso affermativo, in che modo?

Come primo aspetto, è bene ricordare come l’ordinamento civilistico distingua, fondamentalmente, tra due tipologie di responsabilità: contrattuale ed extracontrattuale.

La prima, ai sensi dell’art. 1218 c.c., si verifica nel caso in cui uno dei due contraenti, legati da un rapporto di fonte contrattuale, non sia adempiente rispetto agli obblighi sorti dallo stesso. Dunque, tra le parti di un negozio giuridico, vi deve essere qualcuno che non adempia all’obbligazione che scaturisce dal contratto stipulato, per far sì che si verifichi la responsabilità contrattuale.

Per quanto attiene alla seconda, ai sensi dell’art. 2043 c.c., si verifica nel caso in cui un soggetto cagioni ad un terzo un danno ingiusto. I due soggetti non sono però legati da alcun antecedente vincolo.

Vale la pena ricordare inoltre che il codice civile stabilisce che il contraente è tenuto al rispetto dei doveri di correttezza e buona fede (ex artt. 1175 e 1375 c.c.) e che nel dare esecuzione all’obbligazione di fonte contrattuale deve operare con la diligenza del buon padre di famiglia (ex art. 1176 c.c.).

Il lavoratore, in quanto parte di un rapporto giuridico, ovvero il rapporto di lavoro, è tenuto al rispetto dei doveri di correttezza, buona fede e diligenza, che nel rapporto di lavoro assumono una specifica connotazione. Infatti, il Codice civile dedica due articoli ai doveri del lavoratore: 2104 sulla diligenza e 2105 sull’obbligo di fedeltà. Sul punto si vedano vari interventi giurisprudenziali, quali ad es. Cass. n. 22965/2013, Cass. n. 663/2018, Cass. n. 24976/2019.

Il lavoratore, in quali responsabilità, tra le due succitate, può incorrere?

La risposta esatta è: Entrambe.

Qualora il lavoratore arrecasse un danno al datore di lavoro, senza che il rapporto preesistente abbia alcun rilievo, si tratterebbe di responsabilità extracontrattuale. Si pensi al lavoratore che, al termine dell’orario di lavoro, compiendo sbadatamente una manovra per uscire dal parcheggio con la propria automobile, urti e danneggi l’auto del suo datore di lavoro (!!!): le conseguenze che si verificheranno non avranno alcuna attinenza con il rapporto di lavoro, ma saranno coinvolti in quanto “semplici” persone fisiche.

Qualora invece il lavoratore violasse i propri doveri scaturiti dal rapporto di lavoro, dunque non adottasse la diligenza qualificata necessaria (art. 1176 c.2 e 2104 c.c.) oppure trattasse affari in concorrenza col datore o ne divulgasse notizie circa l’organizzazione e/o produzione (art. 2105 c.c.), incorrerebbe nella responsabilità contrattuale. Si pensi al caso di un lavoratore che danneggi un macchinario di proprietà dell’impresa, oppure al lavoratore che, non adottando la necessaria diligenza, renda la propria prestazione non utilizzabile dal datore di lavoro, con un conseguente danno di natura economica per lo stesso.

In riferimento ad entrambe le responsabilità, grava sul datore di lavoro l’onere di provare, al fine di ottenere un adeguato ristoro, l’esistenza del danno e la sua quantificazione, la condotta tenuta dal lavoratore ed il nesso causale che collega la condotta ed il danno cagionato.

Nel caso della responsabilità extracontrattuale, il datore di lavoro sarà altresì tenuto alla prova dell’elemento soggettivo che caratterizzi la condotta tenuta dal lavoratore. Dunque il lavoratore sarà chiamato a rispondere per un danno cagionato da una sua condotta dolosa o colposa, provata dal datore tramite i normali mezzi di indagine. Ulteriormente, è possibile provare il nesso eziologico tramite perizie o accertamento tecnico preventivo ex artt. 696 e 696 bis c.p.c. (vedasi Cass. n. 8702/2000).

Nel caso di responsabilità contrattuale, la giurisprudenza maggioritaria (ad es. Cass. n. 13533/2001, Cass. n. 13530/2008, Cass. 21 ottobre 1991, n. 11107) ritiene applicabile la regola di riparto dell’onere della prova, non rendendosi così necessaria la prova da parte del datore di lavoro dell’elemento soggettivo.

Solo in seguito alle prove fornite dal datore di lavoro, il lavoratore avrà la possibilità di discolparsi ed essere esonerato da ogni responsabilità, sulla base di quanto contenuto all’art. 1218 cod. civ., ovvero il lavoratore può provare che l’inadempimento e il danno conseguito siano determinati da una causa a lui non imputabile. Nessun danno potrà, dunque, essere addebitato per oggetti o strumentazione guasti, per effetto di rotture o malfunzionamenti dovuti a usura o ad altra causa indipendente dal dipendente.

È ben noto come la violazione dei doveri di diligenza e di fedeltà possa procurare al lavoratore una sanzione disciplinare. Infatti, a fronte di una condotta irrispettosa degli obblighi degli artt. 2104 e 2105, il datore di lavoro ha la facoltà di intervenire dando avvio all’iter per la contestazione disciplinare ex art. 2106 c.c. e art. 7 L. 300/1970.

Le due azioni, disciplinare e giudiziale, sono tra loro autonome e indipendenti. Ne consegue che il datore di lavoro avrà la possibilità, a fronte di un danno da cui sorga responsabilità contrattuale, di avviare l’una o l’altra azione ad arbitrium suum. A riprova di ciò, si riporta Trib. Modena n. 63/2019:”[…] la domanda di risarcimento dei danni proposta dal datore di lavoro non è condizionata alla preventiva contestazione dell'addebito […]”.

Tuttavia, prendendo visione dei contratti collettivi, si può notare come taluni di questi contengano delle previsioni di miglior favore, circa la proponibilità dell’azione giudiziale atta al raggiungimento di ristoro del danno subìto. Invero, i contratti collettivi possono contenere delle specifiche condizioni per la proposizione della domanda giudiziale, ovvero che il datore di lavoro possa procedere con la presentazione del ricorso, solamente dopo aver dato avvio all’iter per la contestazione disciplinare o addirittura aver di già sanzionato il lavoratore.

Ad es. l’articolo 32, lett. a), comma 2 del CCNL Autotrasporti merci prevede che: «l’impresa che intenda chiedere il risarcimento dei danni al lavoratore deve preventivamente adottare almeno il provvedimento disciplinare del rimprovero scritto, specificando l’entità del danno»; oppure il CCNL Chimici, che all’articolo 18 indica che “i danni che comportino trattenute per risarcimento devono essere contestati al lavoratore non appena l'impresa ne sia venuta a conoscenza”. In tale ipotesi, il datore che procedesse in giudizio senza essersi adeguato alla prescrizione del CCNL corre il rischio di vedersi rigettata la domanda di avvio del procedimento, ovvero vederla dichiarata improponibile. Dunque si consiglia, stante l’incertezza, prima di promuovere un’azione di fronte al giudice, di leggere con cura le disposizioni del contratto collettivo o in alternativa di avviare tout court la procedura disciplinare.

L’unica deroga possibile, rispetto a quanto sopra esposto, si ha nell’ipotesi di cessazione del rapporto (vedasi ad es. Cass. n. 18564/2014).

Sul piano operativo, il datore di lavoro non ha la possibilità di agire in via di autotutela, trattenendo preventivamente dalla retribuzione la somma corrispondente al ristoro del danno. Tale affermazione si fonda sulle tre caratteristiche che il nostro ordinamento prevede affinché un credito possa essere riscosso, anche forzosamente: certezza, liquidità ed esigibilità. Un credito, prima di una pronuncia del giudice, deficita del requisito della certezza e della liquidità. Inoltre risulta fondamentale assicurare che sia esigibile (non sia sottoposto ad alcuna condizione sospensiva). Dunque il datore di lavoro avrà la possibilità di operare una trattenuta, solo conseguentemente ad una sentenza.

Per il nostro ordinamento, la trattenuta operata dal datore di lavoro, figura come una compensazione ex art. 1241 c.c.: si tratta di due soggetti legati vicendevolmente da rapporti di debito-credito. Tale sinallagma prevede che i contro-debiti si elidano reciprocamente, fino a completa estinzione di uno dei due.

Per quanto attiene alla retribuzione, l’art. 1241 c.c. prevede che sia assoggettabile a pignoramento o compensazione, entro il limite di 1/5.

Il citato limite non trova applicazione, invece, nei casi in cui i crediti opposti, si generino dalla stessa fonte, nel nostro caso il rapporto di lavoro: in tali casi la giurisprudenza maggioritaria opera tenendo conto della teoria della compensazione atipica, che si risolve in un mero accertamento contabile, atto a operare una sottrazione tra i due crediti. Ovverosia, nel caso di responsabilità contrattuale, il datore di lavoro può attivarsi per ottenere il risarcimento del danno, senza che la possibilità di trattenuta sia limitata ad un quinto della retribuzione.  Cass. n. 5024/2009: «L'istituto della compensazione e la relativa normativa codicistica - ivi compreso l'art. 1246 c.c. sui limiti della compensabilità dei crediti - presuppongono l'autonomia dei rapporti cui si riferiscono i contrapposti crediti delle parti e non operano quando essi nascano dal medesimo rapporto, il quale può comportare soltanto una compensazione in senso improprio, ossia un semplice accertamento contabile di dare e avere, come avviene quando debbano accertarsi le spettanze del lavoratore autonomo o subordinato».

Ciò detto, vi è la possibilità che il lavoratore operi una ricognizione del debito: pur essendo normati i soli effetti, ai sensi dell’art. 1988 c.c., si tratta di una dichiarazione di scienza con cui il lavoratore procede a riconoscere ed accettare la responsabilità del danno cagionato. Questa ipotesi assume importanza poiché esclude che il datore di lavoro sia tenuto a rivolgersi al tribunale per rendere il credito certo e liquido. In effetti, una volta riconosciuto il debito, il lavoratore potrebbe aver interesse a trovare un accordo con il proprio datore, al fine di evitare l’avvio di una procedura legale, meglio se di fronte ad una delle sedi protette. I due soggetti potrebbero quindi raggiungere un accordo, di natura transattiva, il cui contenuto sia la definizione del conflitto: il lavoratore si obbliga a subire una trattenuta sulla retribuzione fino a estinguere il debito e il datore rinuncia all’attivazione di qualsiasi procedura disciplinare o giudiziale (Cass. n. 28811/2020). Inoltre possono essere stabilite le modalità di trattenuta della somma, ad esempio prevedendo la sua rateizzazione.

Ovviamente tale accordo è pur sempre subordinato ad un’eventuale previsione del contratto collettivo: un esempio è tratto nuovamente dall’articolo 18 del CCNL Chimici, che specifica come “le trattenute per risarcimento danni devono essere rateizzate in modo che la retribuzione mensile non subisca riduzioni superiori al 10% del suo importo”.

Infine, si annoti un’ulteriore facoltà al fine di rendere liquido il credito ab origine. Si tratta dell’inserimento di una clausola penale: una clausola accessoria al patto di non concorrenza o alla perdita o danneggiamento di beni dati in custodia. Il fine è quello di quantificare anticipatamente l’ammontare del danno risarcibile, in caso di responsabilità contrattuale. Per la sua validità è richiesto un accordo consensuale ed un’approvazione espressa ex artt. 1341 e 1342 c.c..

L’inserimento di una clausola penale, però, non libera il datore di lavoro dall’onere di provare l’esistenza del danno ed il collegamento logico tra il la condotta del lavoratore ed il danno cagionato, è dispensato dal solo onere di definirne l’ammontare. Si rammenti come, ove fosse ritenuta eccessiva può essere equitativamente ridotta dal giudice ex art. 1341 c.c.. Cass. n. 8726/2019:«La previsione di clausole penali accessorie al contratto di lavoro non esclude la regola generale della necessità del consenso né quella della prova del danno effettivamente subito, non rientrando tra i poteri unilaterali di conformazione della prestazione di lavoro rimessi alla parte datoriale».

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