Il patto di prolungamento del preavviso nelle dimissioni: Regole e punti di attenzione

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Una delle possibilità di cessare il rapporto di lavoro si verifica per volontà di uno dei due contraenti. È infatti facoltà di entrambe le parti, mediante un atto unilaterale, porre fine al rapporto: si tratta del licenziamento e delle dimissioni.

A differenza del licenziamento, le dimissioni non sono subordinate all’accettazione del datore di lavoro e non sono vincolate alla sussistenza di particolari motivazioni. Sono, però, gravate da un particolare requisito procedurale, violato il quale si incorre nella non validità delle stesse: «Al di fuori delle ipotesi […], le dimissioni e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro sono fatte, a pena di inefficacia, esclusivamente con modalità telematiche su appositi moduli resi disponibili dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali attraverso il sito www.lavoro.gov.it e trasmessi al datore di lavoro e alla Direzione territoriale del lavoro» (Art. 26 D. lgs. n. 151/2015).

La procedura di presentazione delle dimissioni, inoltre, può essere espletata personalmente, tramite i moderni sistemi di riconoscimento digitale dell’identità, oppure mediante l’assistenza di uno tra i soggetti abilitati (quali ad es. i patronati, organizzazioni sindacali, consulenti del lavoro, commissioni di certificazione).

Ai sensi dell’art. 2118 c.c.: «Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, dando preavviso nel termine e nei modi stabiliti [dalle norme corporative], dagli usi o secondo equità».

Dunque, tranne per le ipotesi di dimissioni rassegnate per giusta causa (ex art. 2119 c.c.), dimissioni del genitore lavoratore (nel periodo tutelato) o nei casi di libera recidibilità (ad es. durante il periodo di prova), è necessario il rispetto di un periodo di  preavviso.

Onde evitare dubbi, con preavviso si intende il lasso temporale che deve necessariamente intercorrere tra la comunicazione della cessazione, licenziamento o dimissioni, e l’effettiva efficacia di questa. Nel caso di lavoratore dimissionario, questi presenta le dimissioni ed inizia a decorrere il preavviso. Durante l’intera durata del preavviso, il rapporto di lavoro prosegue regolarmente fino alla data di cessazione.

La durata del preavviso, di fatto, viene individuata dai contratti collettivi di diritto comune: è pacifico che, successivamente alla caduta del regime fascista, le norme corporative abbiano perso di efficacia e così ogni rinvio ad esse disposto dalla legge, dunque tale rinvio si intende rivolto alle fonti che successivamente ne hanno preso il posto, che in ambito di rapporto di lavoro sono gli accordi collettivi. I contratti collettivi, spesso, diversificano la durata del preavviso sulla base, tra i vari elementi, di: categoria legale cui appartiene il lavoratore (ex art. 2095 c.c.), il livello di inquadramento e l’anzianità di servizio. Ad esempio, il CCNL Terziario Confcommercio prevede che le dimissioni siano rassegnate con rispetto del termine di preavviso il quale inizia a decorrere dal 1° o dal 16° giorno del mese, dunque il lavoratore che comunichi le proprie dimissioni in data 20 maggio, vedrà il preavviso iniziare a decorrere dal 1°giugno.

Il lavoratore che non intenda rispettare il preavviso, al fine di dare efficacia immediata alle dimissioni, ancorché al di fuori dei casi previsti, subisce una trattenuta dalla retribuzione (c.d. indennità di mancato preavviso) pari ai giorni nei quali avrebbe dovuto prestare l’attività in attesa di efficacia della cessazione.

La questione focale che si vuole affrontare nel presente articolo, una volta aver brevemente introdotto la materia, riguarda la possibilità delle parti di prevedere una durata maggiore del preavviso rispetto a quanto contenuto nel contratto collettivo.

Da una lettura letterale della normativa, parrebbe non fattibile una pattuizione di questo tipo, poiché verrebbero ad insorgere condizioni peggiorative per il lavoratore. Tale soluzione si ricava innanzitutto dalla lettura dell’art. 2118 c.c., il quale, rinviando alle norme corporative, agli usi e secondo equità (di fatto ai contratti collettivi di diritto comune) esclude ogni riferimento alla contrattazione individuale.

Ulteriormente, l’art. 2077 c.c. prevede che «le clausole difformi dei contratti individuali, preesistenti o successivi al contratto collettivo, sono sostituite di diritto da quelle del contratto collettivo, salvo che contengano speciali condizioni più favorevoli ai prestatori di lavoro», il che riconduce all’impossibilità di prevedere, mediante accordo individuale, un termine più duraturo rispetto a quello contenuto nel contratto collettivo di riferimento, poiché, se anche fosse predisposto un accordo in questo senso, tale previsione sarebbe in automatico sostituita.

Infine, per la sola categoria degli impiegati, risulta essere ancora vigente il RDL n. 1852 del 1924 (c.d. legge sull’impiego privato), al cui art. 10 sono individuati i termini di preavviso in caso di licenziamento e dimissioni: nel caso di dimissioni non si prevede la possibilità di innalzare il termine del preavviso, data la natura peggiorativa della proroga, caso opposto riguarda il preavviso in caso di licenziamento.

Un’eccezione in questo tema è rappresentata dall’esistenza di contratti collettivi che esplicitamente prevedono la possibilità di derogare ai termini del preavviso: vedasi ad es. il CCNL del settore credito, che agli articoli 26 e 79 tratta le categorie di quadri e dirigenti, prevedendo espressamente la possibilità che un accordo individuale possa determinare un periodo di preavviso più lungo. Ove si esercitasse tale possibilità, la conseguenza è considerata valida ed efficace al 100%.

Si uniforma a quanto detto parte della dottrina, (ad es. Antonio Vallebona, “Preavviso di dimissioni e accordi individuali”, in Lav. giur., 2001, pag. 1120; Pietro Ichino, “Il contratto di lavoro”, Vol. III, 2000, pag. 390), poiché si ritiene la normativa permeata dall’intenzione di tutelare il lavoratore e dunque non rendendo possibile una deroga in pejus del preavviso. Al contrario vi è chi sostiene (ad es. Alberto Levi, “Contratto di lavoro e recesso del dipendente”, Giappichelli Ed., 2012, pag. 84; Russo, “Problemi e prospettive nelle politiche di fidelizzazione del personale. Profili giuridici”, Milano 2004, pag. 122) la liceità del patto, sulla scorta di quanto sostenuto dalla Giurisprudenza.

In effetti si ravvisa l’esistenza di una radicata interpretazione giurisprudenziale in materia (“questa Corte ha da tempo risolto in senso positivo in ogni caso il problema delle pattuizioni individuali volte a regolamentare il preavviso”, richiamando Cass. Sez. lav. n. 3741/1981), che pare poter porre una conclusione definitiva alla questione in oggetto. Si analizza soprattutto la sentenza n. 4991 del 12 marzo 2015 della Cassazione, ampiamente considerata la più risolutiva in materia. Il caso in esame riguardava un lavoratore del settore delle imprese creditizie, il quale presentava ricorso avverso il proprio datore di lavoro per riconoscere l’illiceità di un accordo di proroga dei termini del preavviso.

La Corte ha preventivamente rammentato l’obbligo di preavviso previsto all’art. 2118 c.c., indicando ulteriormente che, ai sensi dell’art. 98 delle disposizioni attuative del cod. civ., viene disposto come solo in mancanza di previsioni più favorevoli trova applicazione il RDL n. 1825/1924, il quale individua un preavviso di 2 mesi. La previsione di maggior favore, che provoca la non applicabilità del predetto RDL, è contenuta nel CCNL di settore, datato 31/8/1955, che dispone un preavviso di un mese. Però lo stesso contratto collettivo contiene al suo interno la possibilità di prorogare, mediante espresso accordo, il termine del preavviso: nel caso specifico, le parti raggiunsero un accordo teso a quantificare il preavviso in 18 mesi.

La S.C. ha valutato positivamente tale accordo, analizzando per fasi quali fossero le norme da tenere in considerazione: le disposizioni corporative (ex art. 2118 c.c.) non hanno più efficacia, il RDL opera solo in mancanza di norme di maggior favore, le quali esistono e si trovano all’interno del CCNL. Se tra le fonti prevale il CCNL, è corretto applicarne le previsioni per intero, anche laddove questi disponga la possibilità di prorogare i termini per il preavviso.

L’interpretazione fornita dalla Cassazione si è spinta oltre, trattando anche la fattispecie in cui sia stipulato un accordo di prolungamento del preavviso in assenza di esplicita previsione contrattuale: tale ipotesi è accettata dalla Corte. L’accordo, però, è lecito ed efficace nella sola ipotesi in cui non violi alcun principio dell’ordinamento (dunque rispettando il requisito della liceità dell’oggetto ex art. 1343 e 1346 c.c.) e le parti stabiliscano che dall’accordo in questione si verifichi un reciproco vantaggio. È lecito, mediante accordo individuale, pattuirne [rif. al preavviso] una maggior durata giacché tale pattuizione può giovare al datore di lavoro, come avviene nel caso in cui non è agevole la sostituzione del lavoratore recedente, ed è sicuramente favorevole a quest’ultimo che resta avvantaggiato dal computo dell’intero periodo agli effetti della indennità di anzianità, dei miglioramenti retributivi e di carriera e dal regime di tutela della salute (vedasi anche Cass. n. 5929/1979). […] Alla luce di tale ricostruzione, può dirsi che l’ordinamento rimette alle parti sociali ovvero alle stesse parti del rapporto la facoltà di disciplinare la durata del preavviso in relazione alle proprie valutazioni di convenienza, rendendo essenzialmente le parti arbitre del giudizio di maggior favore della disciplina concordata. Nel descritto contesto, la durata legale o contrattuale del preavviso è dunque derogabile dall’autonomia individuale in relazione a finalità meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento giuridico”.

Dunque, la sentenza oggetto di analisi ha il pregio di introdurre una significativa novità, poiché alle parti è così riconosciuta la possibilità di operare un’implementazione dei termini per il preavviso, anche in deroga ai contratti collettivi, purché si attesti una reciproca convenienza. Se la convenienza del datore di lavoro è facilmente ravvisabile, al contrario è bene sottolineare come al lavoratore debbano essere concessi, alternativamente o in combinazione, un compenso in denaro, la corresponsione di un assegno ad personam, la promozione ad una categoria professionale superiore (con conseguente aumento retributivo). È, infatti, lecito l’accordo di prolungamento del preavviso per le dimissioni, se il lavoratore ricevesse l’attribuzione di benefici economici e di carriera in funzione corrispettiva del vincolo assunto (Cass. n. 19080/2018), oppure il vantaggio garantito dal computo di tale periodo di preavviso agli effetti dell’indennità di anzianità, dei miglioramenti retributivi e di carriera (Cass. n. 3471/1981, Cass. n. 5929/1979, Cass, n. 18122/2016). Infatti le parti sono libere di stabilire il corrispettivo del prolungamento, che potrebbe consistere nella “reciprocità dell’impegno di stabilità assunto dalle parti ovvero in una diversa prestazione a carico del datore di lavoro, consistente in una maggiorazione della retribuzione o in una obbligazione non-monetaria, purché non simbolica e proporzionata al sacrificio assunto dal lavoratore” (Cass. n. 14457/2017).  

In definitiva, si attesta il riconoscimento di validità, per effetto della sentenza 4991/2015 e delle varie pronunce ad essa affini. Viene, peraltro, affermato un ulteriore requisito di legittimità del patto: il nuovo preavviso non deve essere eccessivamente prolungato.

Invero, se sono richiesti dei reciproci vantaggi, questi devono di fatto sussistere, dunque un nuovo preavviso eccessivamente duraturo è da ritenersi non valido. Ciò si spiega per effetto della lesione che si verificherebbe in seguito ad un troppo innalzato termine del preavviso: deve sussistere un bilanciamento tra gli interessi e i vantaggi di entrambi i contraenti, ma sarebbe eccessivamente lesivo il patto che vincoli il lavoratore al proprio datore di lavoro, mediante un irrazionale preavviso che rende, di fatto, il lavoratore impossibilitato ad esercitare il recesso.

In effetti, il prolungamento smodato del preavviso viene sostituito dalla previsione dei contratti collettivi, mentre esistono delle ipotesi di nullità della pattuizione in oggetto: ove vi fosse una sproporzione tra il sacrificio richiesto al lavoratore ed i vantaggi ad esso concessi, ovvero un insufficiente preavviso o un qualunque altro trattamento migliorativo; oppure in alternativa, un comportamento elusivo della concessione di un effettivo vantaggio al lavoratore, ad esempio nel caso di riconoscimento nel patto di una progressione di carriera, la quale fosse già stata disposta antecedentemente, dunque slegata dal patto.

Si tratta di ipotesi le quali rendono nulla solo la pattuizione, giacché risulterebbe priva di causa o in frode alla legge, ma la nullità non travolgerebbe l’intero contratto di lavoro istitutivo del rapporto: ai sensi dell’art. 1419 c. 2 c.c. “La nullità di singole clausole non importa la nullità del contratto, quando le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative”; mentre secondo l’art. 1344 c.c. “Si reputa altresì illecita la causa quando il contratto costituisce il mezzo per eludere l'applicazione di una norma imperativa”.

Quanto detto trova conferma presso la giurisprudenza, la quale intende nullo il “patto finalizzato a perseguire un interesse tipico assimilabile ad un patto limitativo della concorrenza, eludendone i limiti di specificazione dell’attività e di adeguatezza del corrispettivo” (Cass. sez. lav., 10/11/2015, n.22933).

Eventuali somme percepite dal lavoratore, conseguentemente alla stipula dell’accordo, ma prima che questo fosse dichiarato nullo, dunque inefficace ex tunc, costituirebbero un indebito oggettivo, ex art. 2033 c.c., e il datore potrebbe procedere con la richiesta di restituzione.

Le somme percepite dal lavoratore incidono sul TFR?

Ai sensi dell’art. 2120 c.c. si prevede che:”Salvo diversa previsione dei contratti collettivi la retribuzione annua, ai fini del comma precedente, comprende tutte le somme, compreso l'equivalente delle prestazioni in natura, corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo non occasionale e con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese”. Il concetto di non occasionalità è stato oggetto di revisione per effetto della Legge 29 maggio 1982, n. 297, la quale esclude tutte le somme erogate una tantum dal datore di lavoro, dunque sporadicamente e non in modo ricorrente. L’orientamento giurisprudenziale prevalente ritiene che un compenso, per essere considerato ai fini del calcolo del TFR, debba essere goduto in modo normale nel corso e a causa del rapporto di lavoro: ovverosia, emolumenti riferiti a eventi collegati al rapporto lavorativo o connessi alla particolare organizzazione del lavoro o in diretta dipendenza con le mansioni stabilmente svolte dal lavoratore presso l’azienda. Per tale ragione è ampiamente riconosciuto che l’indennità corrisposta a fronte del prolungamento del preavviso rientri tra gli emolumenti da considerare ai fini del calcolo del Trattamento di Fine Rapporto.

In conclusione, si consideri il caso del lavoratore che, nonostante un patto che prolunghi il preavviso, sia intenzionato a non rispettarlo. La predetta ipotesi viene considerata pienamente valida, premesso però che il lavoratore dovrebbe rinunciare alle indennità previste per il periodo di preavviso mutualmente implementato e dovrebbe rispettare anche il preavviso minimo individuato dal contratto collettivo, pena la trattenuta dell’indennità di mancato preavviso: “Il lavoratore può liberarsi del rapporto senza rispettare il maggior preavviso semplicemente rinunziando al compenso superminimale pattuito ad hoc e senza ulteriori conseguenze pregiudizievoli (Antonio Vallebona).

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