Mannaggia, il management!

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Quando una cosa è spiacevole da fare o non ci riesce, cerchiamo di evitarla come fosse la rogna.

Questo è ciò che accade a molti professionisti nei confronti del management. E d’altra parte non c’è persona meno adatta di un professionista a fare il manager. Cresciuto e selezionato dal sistema scolastico e lavorativo esclusivamente per i propri meriti individuali, a un certo punto diventa talmente bravo da aver bisogno di collaboratori, che andranno gestiti. Come gestiti? Eppure, io mi sono arrangiato da solo…

Anche quando il professionista riesca ad ammettere l’utilità del management, è portato a fare da solo.

La sindrome del consulente globale fa sì che il professionista sia convinto di essere omnisciente. Pertanto il professionista è nato imparato anche e soprattutto con riferimento al management, che tra l’altro considera, come tutti gli altri lavori del mondo diverso dal suo, una disciplina di serie B rispetto alla sua professione. quindi non degna di studio perché praticabile senza alcuna necessità di preparazione specifica.

Quasi tutti i professionisti sottovalutano grandemente la difficoltà di dirigere il loro team e pensano che sia sufficiente abbozzare.

E così, spesso la delega è largamente incompleta. Vengono assegnati obiettivi vaghi e non quantificati e non scadenzati. Soprattutto il feedback o non viene dato, oppure viene erogato in modo assolutamente non corretto. E poi il professionista si lamenta che la struttura non lo segue, che le persone non lo ascoltano e vogliono fare sempre di testa loro.

I primi feedback, dati con il tradizionale metodo della sfuriata, detto anche shampoo o "cazziatone" ovviamente non portano quasi mai al risultato sperato. Anzi conducono di solito alla contrapposizione, all’escalation, all’allontanamento e alla demotivazione del collaboratore, che comincia a ribaltare sempre più decisioni sul professionista. Mentre invece, le persone all’interno di uno studio professionale si dovrebbero convincere più che comandare.

L’ottimo professionista ma manager “fai da te” adotta generalmente uno stile direzionale simile a quelli che ha subito (padre, madre o maestro/ autoritario/a, allenatore sportivo, e così via …)

In altri casi il professionista non riesce ad essere un buon manager perché pretende anche dall’ultimo stagista lo stesso sacrificio umano che chiede a sé stesso dando per scontato che anche gli altri possano raggiungere senza particolare sforzo i suoi stessi livelli professionali. Questa percezione lo rende anche perennemente deluso e insoddisfatto dei suoi collaboratori, quando invece un manager dovrebbe avere e comunicare la massima fiducia nella propria squadra.

Il locus of control è sempre esterno. In altre parole, della sua conclamata incompetenza come manager, il professionista incolpa i collaboratori: Gianni è sciocco perché glielo ho detto mille volte che deve fare così ma non lo fa. Magari bastasse dire per ottenere. Occorre invece coinvolgere, persuadere, motivare, dare feedback. In altre parole, occorre gestire.

E invece, dopo aver generato lui stesso il problema, il professionista manager adotta la soluzione di chiudersi in sé stesso. Siccome discutere è spiacevole e non porta a nulla, non diamo più feedback. Correggiamo noi le cose invece di chiedere al collaboratore. ad un certo punto, siccome non le otteniamo, facciamo noi le cose invece di chiederle al collaboratore, fino al completo ribaltamento di fatto della gerarchia interna. Il dipendente finisce col diventare la persona da cui il professionista dipende. In alcuni casi estremi si arriva alla situazione per cui è il membro del team che gestisce il titolare di studio facendogli fare quello che vuole.

Quindi, continuando a somministrare deleghe sbagliate, ogni successivo insuccesso nella relazione col collaboratore spinge il professionista a diradare le interazioni rinunciando di fatto progressivamente al proprio ruolo direzionale.

E trasformando lo studio in un covo di anarchici autogestiti. I collaboratori, una volta capito il meccanismo per cui basta rendere la conversazione spiacevole per averla vinta, ne approfitteranno tirando la corda il più possibile.

Abituati alle asprezze della professione e ad esercitare lo scetticismo professionale, molti membri del team, che siano un professionista collaboratore o un dipendente, sono spessissimo persone con carattere forte e con capacità dialettiche e polemiche piuttosto sviluppate.  Quindi le discussioni con un membro del team sono pesanti perché richiedono enorme lucidità e capacità retorica. Occorre smontare le idee professionali e organizzative sbagliate del collaboratore e convincerlo che invece le nostre sono meglio per entrambi e per il bene dei clienti e dello studio.

Spesso quindi il professionista abdica al ruolo di manager e affida lo studio all’autogestione. L’autogestione è talvolta efficace ma quasi mai efficiente ed equa, che sono invece i requisiti che interessano rispettivamente i due stakeholders "proprietari dello studio" e  "membri del team" (collaboratori, dipendenti, stagisti, praticanti, ecc…).

Dirigere è una competenza che si apprende. Esattamente come fare un decreto ingiuntivo, un bilancio o una busta paga. Nessuno di noi è nato sapendole fare, ma forse ve lo siete dimenticati. Se volete fare l’allenatore, anche se siete un campione, dovete prepararvi e dovete esercitarvi. Perché il management è un altro mestiere. Anche Pirlo, nonostante fosse un campione, per andare ad allenare la Juventus ha dovuto farsi sei mesi a Coverciano e fare il patentino da coach. Anzi, se siete in una situazione in cui dovete fare l’allenatore, avete il dovere di farlo bene. Se apprenderete le tecniche della delega e il linguaggio non giudicante potrete assegnare obiettivi che verranno fatti propri e raggiunti e riuscirete a dare feedback senza far arrabbiare nessuno, anzi vi ringrazieranno.

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