Negli studi professionali, le persone sono (s)finite

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Uno degli effetti della pandemia sugli studi commerciali e del lavoro è stato quello di accentuare la crisi, già presente e sentita, dei talenti e delle vocazioni.

In tutto il nord e centro Italia, non si trovano più praticanti, nemmeno a pagarli. (Pensa tu che pretese …)

Gli annunci dei sempre più rari contabili e paghisti che si offrono sono ormai accompagnati dalla frase “astenersi perditempo e studi professionali”.

I nuovi collaboratori che arrivano dal mondo della scuola e dell’università, anche da asseriti percorsi specialistici, continuano ad avere una preparazione totalmente inadeguata in quanto carente della praticità, della multidisciplinarietà e delle soft skills necessarie ad interfacciarsi con clienti e colleghi. Ma è davvero così impossibile insegnare qualcosa di utile?

Le selezioni del personale assomigliano sempre di meno a X factor e sempre di più alla Corrida di Corrado. Dilettanti allo sbaraglio, e sono sempre più lunghe e defatiganti. I candidati, sapendo di essere rari, spesso non si presentano nemmeno al colloquio e talvolta neppure all’assunzione. Anche dopo averla promessa. In vendita al miglior offerente. I colloqui di solito si dilungano solo sulla durata e la sistemazione dell’orario di lavoro, che deve garbare soltanto al candidato. Verrebbe in part-time verticale solo il 27 del mese a prendere la paga ma forse è meglio un bonifico in smart working. Spesso si assume per disperazione, turandosi il naso e prendendo non il primo ma il solo che capita. Si pensa che piuttosto che niente, sia meglio piuttosto. Ma nella gestione del personale non sempre è così.

Il nuovo personale che arriva all’interno degli studi oltre ad essere totalmente inutile spesso è controproducente. Manca infatti totalmente la motivazione a mettersi al servizio degli altri, all’ascolto del cliente e alla risoluzione dei suoi problemi. L’attenzione non è nemmeno più rivolta allo stipendio, ma solo al tempo libero. Troppi diritti, pochissimi doveri.

Come se non bastasse, ad aggravare la situazione, con la pandemia e l’iper-normazione che ne è conseguita, migliaia di collaboratori fedeli e valorosi sono stati folgorati da YOLO. È l’acronimo di “You only live once”. Si vive solo una volta, per cui a migliaia si sono improvvisamente licenziati per diventare skipper o maestri di yoga e seguire la loro vera inclinazione.

Le conseguenze di questa carestia sono molteplici.

Innanzitutto la mancanza endemica di candidati sancisce la ormai totale inutilità dei selettori del personale. Non ha senso pagare dei cacciatori di teste quando non ci sono più teste da cacciare.

Servirebbe semmai fare marketing sui giovani, costruire dei vivai, ma serve aggregarsi perché il singolo studio non ha forze sufficienti per farlo.

Secondo, occorre accontentarsi. Occorre fare il ragù come faceva mia nonna, con quello che aveva in casa. In altre parole occorre valorizzare al massimo le persone che abbiamo, il materiale umano disponibile. Volenti o nolenti dobbiamo riuscire a cavare il sangue dalle rape. E quindi il professionista oltre a fare il suo lavoro e a fare l’imprenditore e il manager si ritrova a fare anche il coach. Tanto, aveva tempo che gli avanzava …

In ogni caso molti studi non riescono a gestire le fasi della formazione e dell’inserimento perché sono troppo piccoli. E quindi molto spesso ci sono rigetti, il personale non attecchisce perché non si sente sufficientemente seguito. E il professionista ha come un deja vu… sembra di sentire la lamentela di un cliente o del proprio partner romantico.

Terzo, la leadership degli studi si sta indebolendo anche nei confronti del personale stabilmente impiegato, che si è immolato per la causa e oggi non riconosce più i suoi datori di lavoro, diventati dei mollaccioni.

Il personale interno agli studi è incredulo. Possibile che i miei titolari siano diventati così imbelli da non trovare altre persone come me? Ma davvero il mio titolare pensa che quel bradipo del nuovo praticante abbia qualcosa a che spartire con me? Confonde la paglia con il grano. Lo staff diventa così sempre più insofferente rispetto al trattamento con guanti bianchi e livrea riservato ai neo arrivati, del tutto dissonante rispetto al ben più ruvido “arrangiati” che hanno ricevuto loro quale benvenuto trent’anni fa. E sempre meno disponibile ad insegnare quello che sa alle meteore che arrivano nei nostri studi. Che sono ormai il kindergarten per andare verso impieghi più rilassanti e meglio pagati, in azienda o nel settore pubblico.

Quarto aspetto, si attinge ormai quasi soltanto alle fasce colpite dalla disperazione: lauree deboli o percorsi scolastici per qualche motivo non conclusi, stranieri in cerca di emancipazione sociale, collegamenti in telelavoro con aree del paese meno sviluppate e meno fortunate.

Eppure ci sarebbero anche quei ben due milioni di giovani che, bontà loro, non studiano e non lavorano. E’ statisticamente impossibile che siano tutti sfortunati e nessuno pigro.

E in mezzo a questa desolazione, ogni tanto compare un highlander. Un millennial su mille, per citare rivisitandolo Gianni Morandi. Bello, fisicato, preparatissimo con i suoi 110 e lode, laurea magistrale a 23 anni, master all’estero, tre lingue, nativo digitale. Nato già pronto per diventare socio, già capace di fusioni inverse e vertenze sindacali collettive, con buona pace della gerarchia di studio fatta sempre meno di scatti e sempre più di anzianità. E pronto a lasciare la professione tra 4-5 anni quando avrà già fatto e  capito tutto e allora andrà alla ricerca di nuovi stimoli in un altro paese, settore, pianeta. E allora largo ai robot, umanoidi e non. Chatbox e intelligenza artificiale come se piovesse. Speriamo arrivino presto e che la software house, per renderli più realistici, non li abbia programmati già troppo lamentosi e sindacalizzati. Come la cassa automatica del casello dell’autostrada. Che dopo aver pagato ti saluta, ma non ringrazia. Arrivederci!

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