Orario di lavoro, di riposo, della pennichella: Un confine non sempre facile da definire

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Ai sensi dell’art. 1 D. Lgs n. 66/2003, preposto all’attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE, viene indicato l’orario di lavoro come “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell'esercizio della sua attività o delle sue funzioni” e, dunque, per differenza viene circoscritto il periodo di riposo a “qualsiasi periodo che non rientra nell'orario di lavoro”. Tale dicotomia da sempre affligge gli operatori del diritto, spesso impegnati in un’attività di differenziazione tra l’una e l’altra ipotesi.  

Tra gli ultimi interventi giurisprudenziali, intesi a definire il (talvolta) labile confine tra le due fattispecie, vi è la sentenza Cass. Sez. Lav. n. 33930/2023 che distingue il rapporto di lavoro in due fasi fondamentali: la fase finale e operativa, cui si contrappone quella preparatoria, propedeutica alla precedente. Con riguardo alla prima, si rileva essere caratterizzata da eterodirezione, ovvero dalla necessità di osservare le disposizioni impartite dal datore di lavoro ed eseguirle con la diligenza richiesta ex art. 2104 cod. civ.. Al contrario, ovverosia con riferimento alla precedente fase di preparazione, i citati aspetti organizzativi vengono meno, ben potendo il lavoratore disporre autonomamente del proprio tempo libero e, dunque, escludere dalla nozione di orario di lavoro la tempistica necessaria per la vestizione e svestizione. Nei soli casi in cui, dacché sia richiesto dalla specifica natura della prestazione e dal tecnicismo caratterizzante gli indumenti, e dunque questi siano da ritenersi diversi da quelli utilizzati o utilizzabili nell'abbigliamento secondo un criterio di normalità sociale, è possibile includere nel concetto di orario di lavoro quella fascia temporale che buona parte della dottrina definisce come “tempo tuta”.

La citata difficoltà nell’identificare quali siano le effettive tempistiche costitutive dell’orario di lavoro si ripercuote su tutte quelle ipotesi in cui il lavoratore sia a disposizione del datore, ma non svolga l’attività.

Con il termine “reperibilità” ci si riferisce alle fasce temporali non rientranti nel normale orario di lavoro, nelle quali al lavoratore può essere eccezionalmente richiesta la resa di una prestazione. La ragione secondo la quale tale ipotesi viene chiamata reperibilità si fonda proprio sulla necessità imposta al prestatore di lavoro di farsi trovare reperibile alla richiesta e disposto alla resa della prestazione, ancorché al di fuori dell’ordinario orario. Ai sensi dell’art. 7 D.Lgs. n. 66/2003, il suddetto regime viene inteso, infatti, come una eccezione alla normale regola di fruizione del riposo giornaliero in misura continuativa.

Una sua specificazione si riscontra in quella che parte della dottrina ed alcuni contratti collettivi definiscono come “pronta reperibilità”, vale a dire la celere presenza sul luogo di lavoro, affinché la prestazione possa essere resa tempestivamente. Nell’ipotesi di “ordinaria reperibilità”, il periodo corrispondente non viene considerato facente parte del normale orario di lavoro, bensì indennizzato solamente da determinati emolumenti specificamente previsti dai contratti collettivi (Corte giustizia UE sent. 303/2000). Al contrario, dunque nel caso di “pronta reperibilità” (ad es. TAR Calabria, sez. Reggio Calabria, 22 novembre 1997, n. 968), stante il vincolo spaziale, il quale determina l’impossibilità di gestire autonomamente il proprio tempo libero, tali periodi vengono inglobati all’interno del più ampio concetto di orario lavorativo.

La suesposta distinzione si è prodotta come effetto di un’evoluzione della considerazione del regime di reperibilità.

Prendendo visione di Cass. sez. lav. del 7 giugno 1995, n. 6400, non può ritenersi “rientrante nel perimetro dell’orario normale di lavoro, considerando tale attività [n.d.r. reperibilità] quale prestazione di carattere strumentale ed accessorio che differisce qualitativamente dalla prestazione di lavoro”. Sulla scorta di quanto indicato, veniva a sorgere il diritto ad una indennità, ma non un diritto alla fruizione di un riposo compensativo, in quanto i giudici ritenevano che “la mera disponibilità all’eventuale prestazione” avesse una incidenza diversa “sulle energie psicofisiche del lavoratore rispetto al lavoro effettivo”.

Successivamente, la Corte di Giustizia CE 9/9/2003, nella causa C-151/02 ha fornito l’indicazione che il servizio di guardia effettuato dal medico, nel luogo di lavoro, sia da considerarsi come rientrante interamente nell’orario di lavoro, a norma della detta direttiva n. 93/104: si tratta del servizio di guardia che un medico svolge secondo il regime della presenza fisica in ospedale, anche qualora all’interessato sia consentito riposare sul luogo di lavoro durante i periodi in cui non è richiesta la sua opera, non potendo, dunque, uno Stato membro introdurre una disciplina tesa a garantire la remunerazione solamente in riferimento alle prestazioni effettivamente rese.

Sulla stessa lunghezza d’onda si attesta la successiva sentenza C-241/20, mediante la quale la Corte Europea ribadisce la rilevanza del tempo d’intervento. Infatti, ove la prontezza di risposta sia requisito fondamentale all’interno del servizio di reperibilità, tale aspetto inciderebbe notevolmente sulla capacità di gestire liberamente il proprio tempo libero e, dunque, i periodi di disponibilità afferiscono necessariamente all’ordinario concetto di orario di lavoro. Anche la Giurisprudenza nazionale, mutando il tradizionale orientamento, si è uniformata arrivando, più recentemente, ad affermare che “qualora il dipendente sia soggetto, durante i suoi servizi in regime di reperibilità, a vincoli di un’intensità tale da incidere, in modo oggettivo e molto significativo, sulla sua facoltà di gestire liberamente il tempo durante il quale i suoi servizi professionali non sono richiesti e di dedicare detto tempo ai propri interessi si impone la qualificazione del periodo di guardia come “orario di lavoro” ai sensi della direttiva 2003/88” (Cass. sez. lav. 23 maggio 2022, n. 16582). Il caso concerneva la situazione in cui ad alcuni lavoratori comunali addetti al servizio di protezione civile veniva imposto un servizio di guardia con tempestiva risposta e inizio di attività entro 30 minuti, peraltro senza beneficiare di un veicolo di servizio all’uopo predisposto, il quale avrebbe legittimamente concesso una speciale deroga alle prescrizioni del C.d.S..

Quanto anzidetto va doverosamente letto in armonia con quanto frutto di accordo collettivo. Le Parti sociali potrebbero, infatti, intervenire al fine di dettagliare e limitare specificamente l’accesso a tale tipologia di istituto. È il caso, ad esempio, del CCNL del settore Metalmeccanica industria, all’interno del quale si reperisce la previsione che “[n.d.r. la reperibilità] non potrà eccedere le due settimane continuative su quattro e non dovrà comunque coinvolgere più di sei giorni continuativi”. Onde evitare qualsivoglia iniziativa di rivendicazione nei confronti del datore di lavoro, questi sarà tenuto ad analizzare minuziosamente la specifica situazione, specialmente in riferimento al tempo d’intervento richiesto al lavoratore e alla limitazione dei suoi periodi extra-lavoro, tenendo in assoluta considerazione quanto previsto dalla contrattazione collettiva.

Invero, rivolgendo nuovamente l’analisi alla citata Cass. 16582/2022, il contratto collettivo prevedeva un preciso diritto del lavoratore soggetto alla reperibilità di usufruire di un riposo compensativo, ma tale previsione veniva, nel caso di specie, completamente ignorata, circoscrivendo la possibilità di fruizione del riposo compensativo all’unica ipotesi in cui fosse lo stesso lavoratore a farne esplicita richiesta. Il che ha comportato la condanna del datore di lavoro, quantificata nella corresponsione di un risarcimento del danno per le ore di reperibilità superiori alle 12 ore giornaliere.

Durante l’orario di lavoro si può dormire?

Il lettore vorrà perdonare il quesito posto in modo decisamente provocatorio, però vi è una recentissima sentenza che tratta tale argomento.

Stante il precedente, e breve, riepilogo, si può procedere nell’analisi di quanto segue: il caso concerne alcuni vigili del fuoco addetti ai servizi antincendio presso la base USA di stanza a Napoli. Ai suddetti veniva richiesta la copertura di un orario 24h, dunque incluso l’intervallo compreso e tra le ore 22 e le ore 6: all’interno della fascia indicata era chiesta la loro disponibilità e, per tale ragione, erano tenuti a riposare all’interno della base militare, in apposite stanze da letto, al fine di poter intervenire sollecitamente in caso di eventuale incendio e/o altra causa di impellente necessità. In forza di tale circostanza, veniva loro periodicamente corrisposta un’indennità “di pernottamento”. A titolo di mero inciso, una copertura così ampia può essere legittimamente disposta ai sensi dell’art. 1 comma 5 L. n. 331/2000, che letteralmente recita “le Forze armate concorrono alla salvaguardia delle libere istituzioni e svolgono compiti specifici in circostanze di pubblica calamità e in altri casi di straordinaria necessità ed urgenza”.

I lavoratori hanno proposto ricorso in primo grado ravvisando, a loro dire, gli estremi per la qualificazione del suddetto periodo come orario di lavoro straordinario, eccependo in giudizio la nullità degli artt. 18 e 54 delle Condizioni di impiego contenute nella Normativa per il Personale Civile non Statunitense delle Forze Armate USA. Alla lettera, le previsioni recitano che “agli addetti ai servizi antincendi che prestano la loro opera in turni di 24 ore è corrisposta una indennità di pernottamento per ogni periodo di riposo nell'ambito del turno di 24 ore, a condizione che il dipendente sia tenuto a trovarsi in locali appositamente approntati dai Comandi all'interno o nelle vicinanze della stazione antincendio ed effettivamente vi rimanga per l’intero periodo di riposo. Una "maggiorazione turno" è corrisposta agli addetti ai servizi antincendio che prestano la loro opera in turni di 24 ore, per ogni turno effettivamente lavorato oltre otto turni in un mese di calendario. S'intende per lavoro straordinario sia il lavoro eseguito al di fuori del turno di assegnazione sia quello eseguito nelle 8 ore normalmente destinate al riposo notturno. In caso di lavoro straordinario eseguito nelle ore destinate al riposo, le frazioni di un'ora sono calcolate come intere”.

Il ricorso all’ultimo grado di giudizio si è reso necessario poiché la Corte di Appello aveva qualificato il pernottamento presso il luogo di lavoro quale periodo di “riposo intermedio” e, dunque, non orario di lavoro, ma nemmeno orario di riposo. Per tale ragione i lavoratori ricorrenti richiedevano l’adeguamento del giudice nazionale all’orientamento della Corte di Giustizia, in merito alla nozione di “orario di lavoro”, la quale, riassumendo, considera come orario di lavoro i periodi di reperibilità svolti nei luoghi indicati dal datore di lavoro e consistenti nel rendersi immediatamente disponibili alla prestazione in caso di necessità.

Nonostante la ricostruzione normativa, condivisa dagli ermellini, il rincorso viene rigettato. Le ragioni di tale decisione sono da ritrovarsi nella “scorrettezza” delle conclusioni cui era giunto il giudice in Appello. Il periodo notturno di guardia svolto all’interno del luogo di lavoro è sicuramente qualificabile come orario di lavoro, tuttavia tale conclusione non determina necessariamente la corresponsione della retribuzione da lavoro straordinario. La normativa eurounitaria nulla prevede circa le modalità di retribuzione dei lavoratori con obbligo di reperibilità, di fatto rimettendone la determinazione ai singoli Stati Membri. Ciò comporta la rilevanza conferita alle disposizioni della Normativa per il Personale Civile non Statunitense delle Forze Armate U.S.A. (stipulato in accordo con le rappresentanze sindacali e, dunque, assimilabile ad un contratto collettivo), che dispone una differenziazione del periodo di guardia in cui sono state effettuate delle prestazioni di lavoro e quello durante il quale non è stato prestato alcun lavoro effettivo. Nel caso specifico, non svolgendosi, di regola, alcuna effettiva prestazione lavorativa, i giudici di Cassazione hanno ritenuto la corresponsione di un’indennità di pernottamento sufficiente a soddisfare l’obbligo retributivo in capo al datore di lavoro, rigettando in toto l’interpretazione fornita in Secondo grado, secondo cui veniva a costituirsi un tertium genus, non riscontrabile nella normativa, la quale prevede un’unica dicotomia tra periodi di lavoro e di non lavoro.

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