Senza eredi gli studi diventano aziende (e le professioni muoiono)

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Le professioni liberali rischiano di indebolirsi in maniera strutturale a motivo di una gestione assolutamente miope della successione generazionale negli studi.

Questo vale un po’ in tutte le professioni, a prescindere dall’attività esercitata, ma risulta più evidente nelle professioni che hanno generato strutture di più grande dimensione e con carriere piramidali come gli avvocati e i commercialisti.

È molto raro che la crescita degli studi professionali sia stata pianificata e voluta a tavolino. Più frequentemente, i soci di uno studio si sono ritrovati loro malgrado con uno studio di grandi dimensioni, ed hanno cominciato a percepire la complessità della gestione solo strada facendo.

Ancora, gli studi professionali nascono di solito con l’intento di assicurare al professionista la sussistenza, cioè nascono con l’ottica di soddisfare le esigenze personali e carrierali degli attuali soci e poi di chiudere. In molti casi i soci si rendono conto solo durante il percorso di aver generato del valore che può essere trasferito, potendo diventare un buon trattamento di fine rapporto o un complemento alla pensione. Oppure si accorgono che la quiescenza si avvicina e non hanno ancora cominciato ad accantonare nulla.

Ma Il sommo desiderio di molti professionisti “arrivati” è quello di lasciare qualcosa dopo di sé, il desiderio di trascendenza. Anche questo desiderio matura di solito negli ultimi anni della professione, quando uno inizia a fare un bilancio della propria vita personale e professionale.

Le considerazioni fin qui fatte ci fanno capire che generalmente i soci di uno studio giustamente pensano al loro interesse. Però purtroppo per lo più a quello di breve periodo. Poi, vicini alla pensione, ci si rende conto che per svariati motivi sarebbe comodo passare di mano lo studio. E che il modo migliore per passare lo studio sarebbe quello di una successione interna, di un management buyout. Però i collaboratori che abbiamo non sembrano avere le caratteristiche necessarie. Nati in cattività, non hanno mai dovuto preoccuparsi di portare a casa un cliente che sia uno. Non lo sanno fare e non lo vogliono imparare. Non sono mai stati coinvolti nelle scelte strategiche e imprenditoriali dello studio, che obtorto collo hanno dovuto subire. Per cui sono ancora più avversi al rischio dei loro predecessori. Non sembrano nemmeno avere l’ambizione di fare il socio: lunghe ore in studio, con la compressione totale della vita privata. Responsabilità elevatissime. Meglio continuare a collaborare.

Soprattutto, i professionisti collaboratori non avendo potuto accumulare utili, non sono in grado di pagare le quote. Spesso nemmeno in tranches periodiche.

Gli avviamenti dedotti nelle clausole di recesso degli statuti delle associazioni professionali sono spesso troppo elevati perché i meccanismi di calcolo delle buonuscite sono figli dell’epoca d’oro delle professioni. Sono ancora legati al fatturato passato invece che alla redditività futura. I termini di rateazione sono troppo brevi per essere pagati da chi ha poco più di uno stipendio.

La conseguenza di questa situazione è che tra breve, quando i baby boomers venderanno i loro studi professionali, di regola non riusciranno a cederli alla propria seconda linea se non in parte trascurabile. Il resto della proprietà degli studi andrà necessariamente venduto a soggetti investitori, che guardano con crescente attenzione al comparto professionale come opportunità.

I soggetti investitori troveranno una situazione ideale, di campo libero: studi composti di liberi dipendenti, abituati ad essere degli stipendiati di lusso eterodiretti. Per farle proprie, sarà sufficiente dotare le strutture acquisite di bravi manager. I pochissimi professionisti con ambizioni di carriera potranno essere fidelizzati con quote di minoranza o altri fringe benefit.

In altre parole la generazione di professionisti uscente ha una importante responsabilità nella aziendalizzazione della professione (e nel declino che ne conseguirà) perché prima ha sfruttato i praticanti snaturandone completamente la funzione e ampliandone a dismisura il numero, e ora che non gli servono più, li consegna al capitale. Del tutto analogo l’epilogo in caso di acquisto dello studio da parte di professional firm di maggiore dimensione con funzione di aggregatori. Tra l’altro, lo strumento tecnico giuridico per realizzare l’aziendalizzazione delle professioni è già pronto: la STP.

Ma forse è giusto così. Nel momento in cui la quarta rivoluzione industriale rende completamente commodizzata la conoscenza, gli studi professionali devono giocoforza trasformarsi in aziende di servizi o sono destinati a perire.

Ciliegina sulla torta è che nessuno vuole più lavorare e men che meno dentro agli studi professionali. La carenza di talenti e vocazioni sta diventando endemica. Quindi digitalizzazione obbligatoria a tappeto per mancanza di disponibilità di forze fisiche. L’intelligenza artificiale che sostituisce quella naturale in via di estinzione. E quindi a trasformazione completa i nostri studi diventeranno delle grandi industrie informatiche.

Si può lavorare per contrastare questi fenomeni sia a livello individuale che di categoria.

A livello di singoli studi, in alcuni contesti si lavora da anni per rafforzare l’avviamento degli studi dotandoli di strutture organizzative più solide. Inoltre ci si adopera per costruire dei delfini formando ed esponendo  le giovani leve ad esperienze di crescente responsabilità, anche esternamente allo studio. In questi ambienti, la formazione, l’addestramento non è più solo tecnica ma anche imprenditoriale e manageriale. I percorsi carrierali e di crescita tengono conto delle nuove necessità fin dall’inserimento del praticante nello studio.

A livello di categoria sarebbe già un grosso regalo se di queste dinamiche si prendesse atto e ne fosse data consapevolezza agli iscritti. Se poi li si volesse formare e indirizzare, tanto meglio.  Alcune professioni come i Consulenti del Lavoro hanno perfettamente compreso queste dinamiche ed hanno ad esempio lavorato per favorire la successione generazionale interna, sia con interpretazioni molto restrittive della normativa STP, sia con contributi che la Cassa nazionale di previdenza concede per finanziare l’acquisto degli studi.

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