VARIAZIONE DELLE MANSIONI e REVOCA FRINGE

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Le mansioni, ovvero sia le concrete attività cui viene adibito quotidianamente ciascun lavoratore subordinato per effetto del potere direttivo riconosciuto in capo al datore di lavoro, costituiscono una parte fondamentale del sistema di classificazione della forza lavoro.

Si rammenti come sia onere del datore di lavoro far venire a conoscenza il lavoratore, al momento dell’assunzione, delle mansioni assegnategli (art. 96 disp. att. cod. civ.) e della categoria di inquadramento (art. 2095 cod. civ.). Invero, la specifica individuazione e la descrizione delle caratteristiche e dei profili professionali, suddivisi su più livelli sulla base, spesso, della recente istituzione del sistema di inquadramento unico, è affidata alla potestas della contrattazione collettiva.

Il c.d. “principio della contrattualità delle mansioni” (art. 2103 cod. civ.) si spiega come quel dovere di adibizione del lavoratore subordinato alle mansioni per le quali è stato assunto: si deve avere, dunque, una fattuale corrispondenza tra quanto frutto di accordo tra le parti e ciò che viene effettivamente svolto in esecuzione del rapporto. Ove la predetta corrispondenza non fosse rispettata, al lavoratore viene riservata la specifica tutela giudiziale, mediante la quale gli si riconosce la facoltà di richiedere una coerente adibizione.

Per tale ragione, si conviene che il datore di lavoro sia altresì gravato dall’onere della corretta individuazione della categoria, della qualifica e del livello, sulla scorta di quanto contenuto all’interno degli accordi collettivi (Cass. n. 20805/2016).

La revisione dell’art. 2103 c.c., per effetto del D. Lgs. n. 81/2015, ha introdotto un concetto riassumibile come “mobilità orizzontale” rispetto alle mansioni originariamente stabilite. Dunque, il lavoratore può vedersi assegnato a mansioni equivalenti (c.d. fungibili) allo stesso livello e rientranti nella medesima categoria legale: ad es. un lavoratore inquadrato al livello D1 del CCNL Metalmeccanica Industria, assunto con mansioni di “montatore”, può essere successivamente e legittimamente impiegato come “saldatore”. Talvolta, conseguentemente a modifiche di tali fattezze, si rende necessario l'assolvimento dell'obbligo formativo, affinché il lavoratore possa efficacemente svolgere le nuove attività e la sua sicurezza non risulti a rischio.

Le variazioni in pejus delle mansioni, ossia l’adibizione del lavoratore a mansioni di livello inferiore (fenomeno conosciuto col termine di “demansionamento”), sono circoscritte ad un esiguo numero di ipotesi, il che trova spiegazione nello spirito permeante il diritto del lavoro, ovverosia assicurare garanzie irriducibili per i soggetti contraenti più deboli.

Il nuovo comma 2 del citato articolo prevede che, nel particolare caso di rilevante modifica degli assetti organizzativi aziendali, la quale produca una notevole incidenza sulla posizione del lavoratore, è considerato legittimo il demansionamento, purché sia limitato ad un solo livello inferiore e la categoria legale rimanga invariata. Allo stesso tempo, il rivisto comma 4 prevede che sia facoltà dei contratti collettivi individuare ulteriori ipotesi, specifiche quindi per il settore di appartenenza. Nel qual caso si verificasse una delle circostanze sopra esposte, si ricordi che viene espressamente sancito, al comma 5, l’obbligo di comunicazione di variazione delle mansioni per iscritto, a pena di nullità. A tali specifiche ipotesi se ne affiancano di ulteriori, legate alla sicurezza, quali il demansionamento della lavoratrice in stato di gravidanza (ex art. 7 D. Lgs. n. 151/2001), oppure la sopravvenuta inidoneità di un lavoratore a seguito di infortunio sul lavoro (ex art. 4 comma 4 L. n. 68/99), oppure per misure specificamente indicate dal medico competente (ex art. 42 D. Lgs. n. 81/2008).

Ai sensi del comma 6 dell’art. 2103 cod. civ., alle parti è riservata un’ulteriore casistica: l’accordo. Possono, infatti, contrarre un accordo finalizzato all’adibizione del lavoratore a mansioni inferiori, purché vi sia un interesse del lavoratore stesso (per esempio la conservazione dell’occupazione oppure il miglioramento delle condizioni di vita) e purché sia stipulato presso le c.d. sedi protette (art. 2113 c.4 cod. civ.), comprese le commissioni di certificazione.

La retribuzione costituisce la controprestazione all’interno del sinallagma contrattuale, dunque ciò che viene corrisposto al lavoratore conseguentemente alla resa della prestazione. Si tratta, cioè, di due obblighi di natura negoziale: all’attività prestata dal lavoratore deve far seguito la retribuzione.

Questa deve necessariamente sottostare ai principi individuati dalla Carta Costituzionale, dunque deve essere proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato ed in ogni caso sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa. Nella prassi, le retribuzioni vengono stabilite dalla contrattazione collettiva, la quale associa ad ogni categoria e livello contrattuale un minimum retributivo inderogabile. Rimane sempre possibile, per le parti, determinare una variazione che determini un’aggiunta migliorativa rispetto agli importi minimi, in qualsiasi momento del rapporto.

Come è noto, il concetto di retribuzione non è monolitico. Invero, si compone di vari elementi, fissi o accessori, in denaro o in natura. Tale concetto si sostanzia di ciò che deriva “da rapporti aventi per oggetto la prestazione di lavoro, con qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione di altri” (art. 49 d.p.r. 917/86), il tutto complessivamente considerato in ossequio al c.d. principio di onnicomprensività (art. 51 d.p.r. 917/86). Infatti, l’art. 2099 c.c. prevede che “il prestatore di lavoro può anche essere retribuito in tutto o in parte con partecipazione agli utili o ai prodotti, con provvigione o con prestazioni in natura”, suggellando l’idea che la retribuzione per il lavoro svolto possa coinvolgere ulteriori elementi, quali, ad esempio, vitto e alloggio, la possibilità di utilizzare mezzi di trasporto aziendali, il servizio mensa, il cellulare aziendale, i beni o servizi prodotti dall’azienda, l’attribuzione di prestazioni previdenziali o assistenziali integrative, l’offerta di beni o servizi aziendali, l’iscrizione a corsi di aggiornamento professionale. La retribuzione in natura, non avente una vera e proprio definizione, viene a coincidere con quell’insieme di beni e servizi che il lavoratore riceve, i quali spesso fungono da integrazione della retribuzione economica, la cui causa sia da ritrovarsi nel rapporto di lavoro.

Già si è detto a proposito dell’esercizio del potere del datore di lavoro, definito “ius variandi”, il quale può comportare legittime variazioni unilaterali in riferimento ad elementi e condizioni del rapporto, come nel caso della variazione delle mansioni. L’esercizio della citata facoltà, però, non viaggia di pari passo con l’adeguamento della retribuzione. È, infatti, affermato un generale principio di “irriducibilità del trattamento retributivo”.

Se la retribuzione fosse costituita da un solo elemento, si potrebbe facilmente giungere alla conclusione che l’intera retribuzione non sia soggetta a restringimenti. Tuttavia, come già si è detto, così non è, ed è quindi lecito chiedersi se il principio di irriducibilità coinvolga tutti gli elementi retributivi, oppure se si attesta l’esistenza di esclusioni. Si può concludere, innanzitutto, che, una diminuzione della retribuzione, cui non corrisponda alcuna modifica degli caratterizzanti il rapporto lavorativo, non possa verificarsi al di fuori delle ipotesi di accordo ex artt. 410 e 411 c.p.c..

Ove, invece, sussista un mutamento nell’inquadramento del lavoratore oppure nelle modifiche all’organizzazione del lavoro, ovvero nelle ipotesi di demansionamento disposto unilateralmente dal datore di lavoro, già precedentemente elencate, per il lavoratore trova applicazione il diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo. Al contrario, la conservazione del trattamento retributivo antecedente non si verifica nel caso di mutamento di mansioni per effetto di un accordo.

Va ricordato come si ritenga assodato l’assunto, espresso più volte dalla Giurisprudenza, secondo cui la garanzia di irriducibilità della retribuzione si debba estendere, però, esclusivamente alla retribuzione connessa alle qualità professionali essenziali per lo svolgimento delle mansioni precedenti, ma non a quelle componenti della retribuzione compensativa di particolari e gravose modalità di svolgimento delle prestazioni. Detto il modo meno arzigogolato, il principio di irriducibilità retributiva implica che la retribuzione concordata non possa essere ridotta; tale principio non deve, però, essere applicato agli elementi retributivi legati a particolari modi di eseguire la prestazione (ad es. indennità di cassa, maneggio denaro, reperibilità, turno, ecc.) qualora la nuova mansione non comporti le stesse responsabilità e/o modalità.

Per tali ragioni, si concorda con quanti individuano, all’interno dell’ampio concetto di retribuzione, un nucleo fondamentale e irriducibile, anche superiore ai minimi contrattuali (come il superminimo), nel quale non sono riconducibili elementi legati a particolari caratteristiche.

Ulteriormente, il principio di irriducibilità trova applicazione, senza distinzioni, alla retribuzione in denaro o in natura. Di conseguenza, le distinzioni sulla possibilità di restringimento della retribuzione si considerano parimenti efficaci: un fringe benefit, legato a particolari circostanze o modalità di resa della prestazione, nell’ipotesi di mutamento delle mansioni, potrebbe venir meno.

Un caso meritevole di un’analisi specifica, è rappresentato dall’auto aziendale concessa al dipendente. Invero, nella fattispecie oggetto di trattazione nella sentenza Cass. n. 11538/2019, è stata ritenuta legittima la revoca della disponibilità dell’auto aziendale, poiché il lavoratore aveva sottoscritto un regolamento secondo cui l’uso della stessa era da ritenersi ad interesse esclusivo della società e, quindi, revocabile senza necessità preavviso. Viceversa, l’eventuale concessione dell’auto ad uso promiscuo complica notevolmente la questione. Ciò si spiega considerando l’ipotesi in cui l’auto sia espressamente indicata come elemento del trattamento retributivo del dipendente, per cui, non essendo prevista l’esclusiva finalità lavoristica, non potrebbe essere revocata, stabilendo conseguentemente il diritto dei lavoratori a mantenere il livello retributivo assicurato attraverso il beneficio dell’uso della stessa.

È importante, però, prestare attenzione e, in fase di corresponsione, specificare la revocabilità dell’auto nel caso in cui venissero meno i presupposti organizzativi e produttivi, colmato magari dal riconoscimento di un trattamento economico sostitutivo. Se, per contro, la concessione avesse carattere meramente temporaneo, stante tale aspetto, non si determinerebbe alcun effetto retributivo nel momento del venir meno del fringe benefit.

Si rende opportuno, quindi, prestare molta attenzione alla modalità di concessione di tale fringe: ove l’autoveicolo aziendale venisse concesso per un breve periodo, anche nel caso in cui l’utilizzo fosse esteso alla vita privata del lavoratore, si ritiene che non si consolidi alcun diritto stabile di carattere retributivo; al contrario, ovvero l’auto aziendale ad uso promiscuo espressamente indicata come elemento del trattamento retributivo del dipendente, sarà necessario applicare espressamente il principio di irriducibilità.

Si prende visione dell’ordinanza n. 14420/2019 della Corte di Cassazione, in cui si ha un lavoratore che agisce avverso il proprio datore di lavoro poiché, nei precedenti gradi di giudizio, era stata valorizzata la scelta dell’azienda di sostituire il fringe benefit (nel caso di specie l’auto) con un trattamento retributivo monetario, riconoscendo, in questo modo, natura retributiva allo stesso fringe. La S.C. riprende il consolidato indirizzo sulla natura retributiva del valore rappresentato dall’uso dell’autovettura concessa al dipendente, anche ai fini personali e familiari, scrivendo che l’auto concessa “come beneficio in natura, anche indipendentemente dalla sua effettiva utilizzazione, rappresenta il contenuto di una obbligazione che, ove pure non ricollegabile ad una specifica prestazione, è idonea ad essere considerata di natura retributiva, con tutte le relative conseguenze, se pattiziamente inserita nella struttura sinallagmatica del contratto di lavoro cui essa accede”. Così, decidendo la questione, la Suprema Corte rigetta il ricorso del lavoratore, in quanto non dimostra su quali presupposti debba ritenersi errato il criterio di determinazione del controvalore economico dell’auto a uso promiscuo utilizzato dal giudice.

Ulteriormente, ancor più di recente, un dirigente, il cui rapporto di lavoro era stato ceduto a seguito di trasferimento d’azienda ex art. 2112 c.c., proponeva appello, a seguito del rigetto in primo grado in cui sosteneva di aver subito una riduzione illegittima della retribuzione in riferimento, in particolare, ai fringe benefit dell'alloggio e dell'auto ad uso promiscuo. La Corte di Appello di Milano, con la sentenza del 27 aprile del 2023 n. 463 ha respinto tali richieste, non ravvisando una “evidente decrescita professionale realizzatasi attraverso lo svuotamento sostanziale delle sue mansioni e della sua professionalità”. Oltre alle diverse istanze presentate dal ricorrente, ciò che in questa sede interessa rilevare è che la Corte di Appello, in ordine alla revoca dei fringe benefit, ricorda come il principio della irriducibilità della retribuzione non sia invocabile nel caso oggetto della decisione, poiché gli stessi fringe sono “componente aggiuntiva ai minimi tabellari, non coperta dalla tutela dell'art. 36 Cost., che si riferisce ai minimi retributivi fissati dalla contrattazione collettiva e idonei a garantire la proporzionalità della retribuzione stessa alla qualità e quantità del lavoro prestato”. Invero, nella retribuzione di lavoro subordinato sono da considerarsi la “totalità dei compensi corrispettivi delle qualità professionali intrinseche alle mansioni del lavoratore, ossia attinenti alla professionalità tipica della qualifica rivestita; non essendo compresi i compensi erogati in ragione di particolari modalità della prestazione lavorativa o collegati a specifici disagi o difficoltà, i quali non spettano allorché vengano meno le situazioni cui erano collegati”.

Nel dettaglio, poi, l’alloggio era stato oggetto di revoca conseguentemente ad una conciliazione in sede protetta, mentre, richiamando la succitata Cass. n. 11538/2019 in ordine alla presenza di una trattenuta mensile in capo al dirigente, “quando dell'auto aziendale è consentito anche l'uso privato, ma questo è concesso a fronte del pagamento, mediante trattenuta in busta paga, di un canone non simbolico, non si può ritenere che l'uso privato costituisca una forma di retribuzione in natura, posto che al datore di lavoro è corrisposto un adeguato rimborso degli oneri e delle spese sostenute. L'autovettura in uso al dipendente non può dunque essere considerata come un elemento avente natura retributiva (come tale soggetto al principio di irriducibilità della retribuzione) nel caso in cui, una volta revocata la concessione, la trattenuta del canone non sia più operata”.

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