A MAGGIO TORNANO LE CILIEGIE, LE PREGHIERE MARIANE E … GLI STUDI DI SETTORE

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In caso di scostamento dalle risultanze dei ricavi puntuali di riferimento di GE.RI.CO., calcolati a partire da uno studio di settore, è onere del contribuente fornire la dimostrazione delle circostanze giustificative di tale divergenza.

Non è un refuso: è proprio questa la conclusione a cui è approdata l’ordinanza 12478 del 12 maggio 2021 della Cassazione, con buona pace di quanto ebbero ad affermare le Sezioni Unite della stessa Corte già nel lontano 2009.

La questione sembrava ormai definitiva: l'accertamento effettuato utilizzando i risultati degli studi di settore ha costituito per decenni un accertamento analitico-induttivo (o presuntivo), ai sensi dell'art. 39 co. 1 lett. d) del DPR 600/73.
Condizione per procedere all'accertamento è che i ricavi/compensi dichiarati risultino inferiori a quelli stimati mediante l'applicazione degli strumenti presuntivi predetti (art. 10 co. 1 della L. 146/98). Più nello specifico, l'art. 62-sexies co. 3 del DL 331/93 richiede l'esistenza di "gravi incongruenze" tra i ricavi, i compensi e i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dagli studi di settore.

Tuttavia, come ebbe a dire la massima giurisprudenza (Cass. SS.UU. 18.12.2009 n. 26635, 26636, 26637 e 26638), la procedura di accertamento standardizzato mediante l'applicazione degli studi di settore è basata su presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è determinata ex lege in relazione ai soli risultati di tali strumenti, ma nasce procedimentalmente in esito al contraddittorio, il cui esito deve far parte della motivazione dell'atto di accertamento . Gli studi di settore, infatti, rappresentano un'elaborazione statistica la cui applicazione fornisce solo un'ipotesi probabilistica che, come tale, non è sufficiente a legittimare la pretesa tributaria dell'Amministrazione.
L'onere della prova è ripartito tra contribuente e Ufficio accertatore. In particolare, anche sulla base degli elementi emersi in sede di contraddittorio precontenzioso (da attivare obbligatoriamente ai sensi dell'art. 10 co. 3-bis della L. 146/98), l'Ufficio è tenuto a dimostrare le ragioni che determinano l'inclusione del contribuente accertato tra i parametri che caratterizzano lo studio di settore, mentre il contribuente può fornire elementi che spieghino perché la situazione si discosta da quella ricostruita dall'Ufficio.

Ma ecco che poi arrivò il 12 maggio e, nel caso affrontato nel corrente mese mariano dagli Ermellini, a seguito di un accertamento da studi di settore ed in seguito all’instaurazione del contraddittorio preventivo con il contribuente, venivano rigettate le contestazioni di quest’ultimo rispetto alla divergenza, rilevata dell’Ufficio, tra quanto dichiarato dal medesimo contribuente e il calcolo effettuato dalla procedura standardizzata. A quel punto, veniva emesso l’avviso di accertamento, che veniva ritenuto congruamente motivato, da parte dei giudici di merito, dal momento che l’Agenzia delle Entrate aveva confutato le osservazioni riportate del soggetto accertato.

Ovviamente, l’accertamento notificato al contribuente veniva contestato, tra le altre cose, proprio in considerazione del fatto che esso risultava basato unicamente sulle risultanze degli studi di settore, senza il supporto di ulteriori elementi probatori ma ecco che, a questo punto, arriva il colpo di scena:  con buona pace di 12 anni di costante convinzione giurisprudenziale, su tale specifico punto la Cassazione ha ritenuto che, nell’ambito degli accertamenti da studi di settore, sia il contribuente a dovere dimostrare la sussistenza di circostanze di fatto tali da giustificare lo scostamento rispetto al calcolo automatizzato degli studi, facendo sì che il reddito sia risultato inferiore a quello calcolato dalla stessa procedura. In sostanza, secondo l’inopinata ordinanza di maggio, gli studi di settore darebbero luogo ad una "presunzione di reddito" determinata dalla procedura standardizzata, rispetto alla quale il soggetto accertato deve fornire adeguata prova contraria.

Nel caso in esame la Ctr aveva ritenuto che il contribuente non avesse fornito prova di alcuna circostanza giustificativa dello scostamento reddituale dal calcolo degli studi di settore e la Cassazione ha confermato la pretesa impositiva.

"Era de maggio" ... così cantava in "Fleurs" il grande Franco Battiato che in questi giorni ci ha lasciato: "era de maggio e sò turnato, e mò, comm'a na vota, cantammo nzieme lu mutivo antico".

E anche per gli studi di settore è giunto un maggio in cui è tornato a risuonare, come una volta, un motivo antico, ovvero quello secondo cui essi sarebbero strumento automatico di accertamento, di fatto idoneo ad invertire l'onere probatorio.

Ovviamente, non è così e questa ordinanza è solo un incidente di percorso di un collegio giudicante forse affaticato da troppi procedimenti pendenti, spesso frettolosamente decisi in sede di legittimità.

Non basta, infatti, il semplice scostamento dagli studi di settore per poter procedere, in automatico, all’accertamento fiscale nei confronti del contribuente. Non basta neanche che l’amministrazione ritenga insufficienti le motivazioni da quest’ultimo addotte a propria difesa durante il contraddittorio con l’ufficio. Al contrario è necessario e imprescindibile che l’Agenzia delle Entrate dia sempre e comunque una motivazione sulle ragioni che l’hanno indotta a rigettare la difesa avanzata dal contribuente: motivazione che non può essere sintetica e generica, ma va argomentata con precisione, in modo da consentire il diritto di difesa.

Purtroppo, però, per il contribuente laziale incappato in questa recente disavventura giurisprudenziale sugli studi di settore  la Cassazione è tornata a cantare in un malinconico giorno di maggio un motivo antico e superato.

E per l'ennesima volta, parafrasando la conclusione della celebre canzone per omaggiare il poeta e cantautore siciliano, la Cassazione ha fatto di un malcapitato contribuente "chello che vuò".

Nell'auspicio che sia l'ultima volta... ma non ne siamo granché convinti.

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