Per il professionista il management non esiste

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Una delle più radicate convinzioni limitanti che impedisce al professionista di crescere è quella di credere che dedicare tempo ed attenzioni alla gestione dello studio, del suo team, del suo junior (o della propria agenda) serva a poco o a nulla.

Le origini di questa convinzione sono molto chiare. Siccome il professionista si è fatto da solo e si arrangia da solo, pensa che questo debba valere anche per tutte le altre persone ed anche per i gruppi, di qualunque dimensione essi siano. Invece molte persone, la maggior parte, ha bisogno e addirittura desidera una guida. Ed è in grado di crescere e di prosperare solo attraverso una guida. Per i gruppi questo diventa fondamentale se vogliamo che siano squadre e non condomìni.

Al professionista in fase di formazione le materie manageriali ed organizzative o non vengono somministrate (vedi notai, avvocati, architetti, geometri, ecc…) oppure nei rari casi in cui ciò avviene (ad es. economia, ingegneria gestionale, talvolta medicina) gli appaiono come materie riempitive e di poca concretezza. L’apparente leggerezza con la quale vengono insegnate tradisce invece la difficoltà a mettere in pratica la scienza della leadership, del management e del coaching.

Il professionista inoltre è selezionato e preparato per tutto il suo percorso professionale per le sue capacità individuali, e non per quelle di gestione di un gruppo. Dalla università all’esame di stato al concorso e poi all’esercizio della professione, viene apprezzato in quanto individuo. Quando diventa molto bravo, a seguito dell’aumento del lavoro, il professionista deve necessariamente dotarsi di collaboratori e assistenti. Vale a dire: deve gestire un team. Ma è stato formato per un obiettivo completamente opposto: fare tutto da solo.  La differenza è tangibile. La reazione di tutti i professionisti quando ricevono un nuovo lavoro è di iniziare a farlo mentre quella del manager è di scegliere a chi farlo fare e assegnarlo a quel collaboratore. Molti professionisti si ritrovano così per loro generosità e buon cuore quasi inavvertitamente a svolgere anche in parte le incombenze dei propri assistenti, che trovando accoglienza si liberano dei loro compiti.

E poi,  un vero professionista parametra tutto sulla propria esperienza. Per cui, se ha provato a gestire lo studio, il team, l’impiegata o il praticante e non ci è riuscito non penserà di essere lui una schiappa ma semplicemente che l’operazione è una missione impossibile.

In altre parole il senso di superiorità del professionista lo fa passare dal non credere che il management serva a qualcosa a credere che il management non serva a niente.

Questa credenza, che come vedremo è del tutto falsa e fuorviante, porta con sé una serie di corollari ancora più aberranti.

Inoltre il professionista non sapendo gestire e volendosi comunque inventare nel ruolo finisce spesso con l’ imitare gli stili manageriali che ha subito: quello del padre autoritario, quello della maestra elementare, dell’allenatore di pallavolo, del prete dell’oratorio. Che non è detto siano esattamente i più efficaci.

Se il tempo passato ad organizzare è tempo buttato via, allora chi organizza lo studio non deve essere pagato come chi produce ma molto meno, perché non svolge lavoro immediatamente fatturabile.

Inoltre, se siamo convinti che gestire serve a poco, allora i problemi organizzativi vanno posposti rispetto alle emergenze. Siccome il management non serve a nulla, mi doterò delle procedure quando avrò tempo. Ora non ho tempo né di scriverle né tantomeno di seguirle. Pianificherò il lavoro ex post perché tanto ex ante è come scrivere il libro dei sogni. La continua emergenza in cui versano i nostri studi non è quindi una necessità ma è una aspettativa del professionista che si autorealizza.

La granitica visione del negazionista del management si incrina quando parla della squadra del cuore. Stranamente la stessa squadra sportiva, lo stesso atleta cambiano radicalmente prestazioni quando cambia l’allenatore.

E ce ne sarebbero eccome di titolari di studio e di managing partner che andrebbero esonerati. Ma anche di giovani collaboratori rampanti ai quali viene affidato un praticante che umiliano e parcheggiano in un angolo dello studio a fare fotocopie invece di farlo crescere.

Tra l’altro, l’allenatore sportivo non gioca nemmeno. Cioè dedica la sua vita non a lavorare lui, ma  a far lavorare gli altri. Situazione inconcepibile per il professionista che come una spugna raccoglie il lavoro di tutti e vuol fare tutto lui.

Una situazione pressoché simile a quella dell’allenatore la ritroviamo anche nella figura dei direttori d’orchestra.

Come fa notare il grande Benjamin Zander, Il direttore d'orchestra non fa nemmeno un suono. Dipende, per il suo potere, dalla sua capacità di rendere potenti altre persone. E quando l'orchestra non ha direttore, si sente. Al Concerto di Capodanno, è tradizione che il Direttore della Wiener Philarmoniker, liberamente scelto dai virtuosissimi orchestrali, omaggi i suoi elettori cedendo per l’esecuzione di un brano la direzione al primo violino. Il pezzo senza direttore si sente anche senza guardare la TV, semplicemente ascoltando la mancanza di personalità e di brio di quel frammento di musica.

Purtroppo, inevitabilmente, un ruolo di coordinamento diventa essenziale al crescere della dimensione e della complessità di qualsiasi organizzazione. E non sono sufficienti gli incentivi economici o l’autogestione a portare l’elevatissima efficacia, efficienza e tempestività che sono richieste oggi per la performance dei nostri studi, del nostro team o dei nostri singoli collaboratori. Anche la crescita autogestita del collaboratore è diventata impossibile ed anacronistica e richiede risorse formative e mentori dedicati.

Il professionista manager dovrebbe svolgere almeno due funzioni fondamentali. La prima è quella di assegnare i compiti, bilanciare i carichi di lavoro, e monitorare la loro realizzazione.

La seconda funzione consiste nel gestire a livello emotivo il gruppo e i singoli collaboratori, dipendenti e praticanti: stabilire le regole di partecipazione al gruppo, motivare, fare da collante al team. Essere il primo criticone e la prima cheerleader del gruppo.

Il primo passo che un professionista può fare per crescere consiste nell’accettare filosoficamente l’esistenza e l’efficacia della funzione manageriale, cioè nel prendere consapevolezza che al pari del diritto anche il management è una scienza ed è un mestiere a parte, e che lo studio professionale può beneficiare notevolmente in termini di efficienza, di riduzione dei rischi e di benessere dello staff da una gestione più manageriale.

Il secondo è quello di prepararsi. Utilizzando la metafora calcistica, ogni professionista passa oggi da un ruolo di giocatore a quello di allenatore della sua squadra senza fare il corso per commissari tecnici che la FIGC tiene a Coverciano e al quale hanno dovuto sottoporsi anche campioni del calibro di Pirlo.

Da questo punto di vista, il grande punto di forza del professionista è la sua proverbiale capacità di apprendimento, forgiata da anni di studio di leopardiana memoria. Per cui ha tutti gli strumenti per apprendere anche questa nuova, utile disciplina.

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